Biennale di Venezia. Quel che resta della fotografia
Belgio, Ucraina, Australia e Taiwan. Si riassume pressappoco così, in quattro padiglioni nazionali, la presenza della fotografia alla 57. Biennale di Venezia. Un fenomeno curioso, visto che solitamente a questo mezzo si è sempre dato grande spazio in Laguna.
Dopo parecchie edizioni in cui la fotografia ha giocato un ruolo da protagonista, in questa 57. Biennale di Venezia si potrebbe affermare, senza timore di smentita, che le è stata assegnata la parte di Cenerentola. Pochi padiglioni nazionali con mostre fotografiche e ancora meno spazio nella mostra internazionale di Christine Macel. Ma quello che c’è, comunque, è degno di essere visto.
DIRK BRAECKMAN PER IL BELGIO
Tra i primi padiglioni all’entrata dei Giardini, quello del Belgio, che ospita una bella mostra di Dirk Braeckman. Grandi immagini in bianco e nero, analogiche: un chiaro riferimento alla fotografia tradizionale, anche nella scelta dei soggetti, con nature morte e dettagli. “La fotografia è, per me, un tentativo quasi ossessivo di scrutare tutto quello che mi circonda, tutto ciò che incontro, mosso dal desiderio di dare un ordine al caos. Con o senza macchina fotografica”, dichiara l’artista.
C’è chi ha trovato una forte somiglianza tra questi lavori del 59enne belga e quelli degli Anni Ottanta dell’inglese Cragie Horsfield. Si è addirittura parlato di plagio. Indubbiamente l’aria che tira è simile, ma i presupposti sono diversi: differente soprattutto è l’atteggiamento con il quale si affronta l’ambiente circostante.
BORIS MIKHAILOV PER L’UCRAINA
Chi si aspetta di ritrovare le strepitose immagini della disastrata società russa di Boris Mikhailov (Charkiv, 1938) nel padiglione ucraino, casca male. Quanto ci viene proposto è un nuovo lavoro Parlamento, iniziato nel 2014, ancora in corso d’opera. Un punto di vista “sintomatico del panorama corrente e del clima della società ‘post-verità’”.
Il progetto si concentra sul rapporto tra la fotografia e i media, e l’interazione tra analogico e digitale. È uno sguardo, il suo, sull’attuale senso dell’informazione in un Paese assai complesso: un Mikhailov completamente diverso da quello al quale siamo abituati, che ci lascia in qualche modo senza parole.
In mostra anche altre foto di artisti ucraini che ritraggono lo stesso Mikhailov.
TRACEY MOFFATT PER L’AUSTRALIA
È una mostra di grande effetto quella ospitata dal Padiglione Australia, dedicata a una degli artisti più noti del paese, Tracey Moffatt (Brisbane, 1960), artista aborigena. My Horizon, questo il titolo, propone due serie di foto e due video che raccontano di viaggiatori e rifugiati. Un lavoro efficace sull’attualità del fenomeno della migrazione. Storia e fiction, star di Hollywood accanto ad autoctoni, che nei giorni dell’inaugurazione giravano per i giardini intenti in danze rituali.
Quello che potrebbe sembrare reportage non lo è: il suo è un intelligente lavoro sul linguaggio della fotografia e del video. E quanto sembra segnato dal passare del tempo non lo è nella chiave in cui appare. Moffat ci offre uno sguardo intenso sulla storia del suo Paese e sulle tragiche vicende del suo popolo d’origine.
TEHCHING HSIEH PER TAIWAN
Protagonista del padiglione di Taiwan è Tehching Hsieh (Nanzhou, 1950), artista che negli Anni Settanta si è trasferito negli Stati Uniti. Il lavoro di Hsieh presente in mostra è una vera e propria scoperta. Si tratta di una ricerca di matrice esistenziale: tutto parte dal suo corpo. Sono i primi lavori, inediti, realizzati a Taiwan. Il tentativo è quello di liberarsi, attraverso una ferrea autodisciplina, dall’assoggettamento sociale e politico. Un tentativo riuscito di resistenza, del quale la fotografia è imprescindibile strumento di documentazione.
La mostra è curata dallo scrittore inglese Adrian Heathfield.
– Angela Madesani
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