Fotografia in dialogo. Intervista ad Alex Webb e Rebecca Norris Webb
In occasione della mostra allestita alle Officine Fotografiche Milano, la coppia di maestri dell’obiettivo si racconta. Fra passato e futuro.
Autori di fama mondiale, noti per la poetica delle loro immagini di strada, hanno pubblicato in totale diciotto libri fotografici. Le loro opere sono state esposte in musei internazionali quali il Whitney Museum of American Art, il Metropolitan, il Guggenheim di New York, e il Museum of Fine Arts di Boston.
Lui è uno dei più celebri e acclamati fotografi dell’agenzia Magnum, di cui è membro dal 1979. Noto in particolare per i suoi reportage in America Latina e nei Caraibi.
Lei, una poetessa e fotografa dallo stile profondamente intimista sia nell’approccio visivo sia nella scelta di temi personali, come nel caso del suo ultimo libro My Dakota, un’elegia in onore del fratello morto inaspettatamente, dove testi e immagini si fondono.
Stiamo parlando di Alex Webb (San Francisco, 1952) e Rebecca Norris Webb (Rushville, 1956) e li abbiamo intervistati in occasione del lancio della mostra My Dakota, portata in Italia da RVM Hub.
Alex, Rebecca, so che state sviluppando un nuovo progetto comune su Brooklyn. Potete dirci qualcosa di più a riguardo?
Alex Webb: Sto fotografando tutta Brooklyn, esplorando la notevole diversità culturale del quartiere, dalla Brooklyn messicana a quella caraibica a quella cinese. In qualche modo sto esplorando il quartiere nella stessa maniera in cui ho esplorato il mondo per molti anni, tranne per il fatto che adesso sto usando la metropolitana invece dell’aereo. E Rebecca sta fotografando gli spazi verdi nel cuore di Brooklyn, vicino a dove viviamo: il Prospect Park, i giardini botanici, il cimitero di Green Wood. In un certo qual modo le nostre due diverse tipologie di lavori su Brooklyn riflettono le nostre ossessioni fotografiche: il mio fascino per la diversità urbana e, nel caso di Rebecca, il mondo naturale nell’ambiente urbano. Mettere insieme il nostro lavoro creerà un ritratto più stratificato.
Il progetto si chiamerà The City Within, in parte perché Brooklyn è una città nella città più grande di New York, ma anche perché Rebecca, fotografando gli spazi verdi nel centro del quartiere, sta fotografando la città all’interno della città.
Rebecca Norris Webb: Dopo aver vissuto insieme a Brooklyn per quasi 20 anni, verrà un momento nei prossimi anni in cui lasceremo il quartiere. Così The City Within è anche una sorta di addio.
Alex, dopo aver esplorato per decenni culture altre, da Haiti al Messico a Istanbul, solo per nominarne alcune, sembra che tu voglia tornare a indagare la tua cultura. È un bisogno legato alla maturità artistica o al particolare periodo storico attraversato dagli Stati Uniti?
A. W.: Questa è una buona domanda. Non lo so per certo. Il mio recente interesse nel fotografare la mia cultura è emerso lentamente, e ha avuto inizio con una fotografia a Erie, in Pennsylvania nel 2010, ed è cresciuto con il nostro libro su Rochester, Memory City (2014), che riguarda la pellicola, il tempo, la memoria e la città stessa di Rochester, New York, casa per lungo tempo della Kodak, che nell’anno successivo, il 2012, annunciò la bancarotta.
Negli ultimi anni, la mia curiosità per le città degli Stati Uniti sembra essere entrata in un’altra fase. Sto cominciando a fotografare in una serie di città meno conosciute, come Indianapolis, Houston, Memphis e Cleveland. E forse il mio lavoro più recente, soprattutto le fotografie scattate a partire dalle elezioni presidenziali del novembre 2016, comincia a riflettere alcuni di questi strani e inquieti sviluppi socio-politici.
Rebecca, My Dakota è un libro molto intenso, che affronta la perdita attraverso la fotografia e la poesia, regalandoci così un ritratto insolito del Sud Dakota. L’idea del libro, tuttavia, è nata prima del tragico evento che gli ha dato forma. Puoi dirci com’è cambiato il processo creativo?
R. N. W.: Nel 2005, My Dakota è cominciato come un’esplorazione fotografica del Sud Dakota, lo stato delle “Grandi Pianure” scarsamente popolato, dove sono cresciuta. Inizialmente, stavo cercando di catturare il senso del paradosso che mi aveva incuriosito da quando, a 15 anni, ho lasciato l’Ovest con i miei genitori: perché un paesaggio così immenso viene percepito in modo così intimo da chi che vive lì?
Un anno dopo, tuttavia, tutto è cambiato. Uno dei miei fratelli è morto improvvisamente di insufficienza cardiaca. È stata la prima perdita di un membro stretto della mia famiglia, ed è stato devastante. Sembrava che tutto quello che potessi fare era guidare attraverso le praterie e i calanchi del Sud Dakota e fotografare. Ho cominciato a chiedermi: la perdita ha una propria geografia?
Lentamente, My Dakota si è evoluta in una specie di diario di viaggio del mio dolore per mio fratello David.
Alex, chi ha seguito la tua carriera individua come punti cruciali il passaggio dal bianco e nero al colore, il passaggio dalla pellicola Kodachrome al digitale e la collaborazione con Rebecca. Quando nei tuoi progetti entra in gioco la letteratura come forma di espressione oltre che di ispirazione?
A. W.: Uno degli anni più significativi della mia giovinezza come fotografo è stato il 1975, quando ho iniziato a fotografare ad Haiti e al confine tra gli Stati Uniti e Messico, avevo 23 anni. E la decisione di farlo fu strettamente legata alle mie letture dell’inizio di quello stesso anno: The Comedians di Graham Greene, un romanzo ambientato ad Haiti e il suo libro sul Messico, The Lawless Road. Questi libri mi avevano affascinato e, soprattutto The Comedians, mi aveva spaventato. Ho iniziato a viaggiare e fotografare più in profondità in America Latina e nei Caraibi. Circa tre anni più tardi, mi sono reso conto che non mi stavo confrontando con la luce accecante e con il colore intenso e vibrante di quei luoghi, dove il colore sembra incastonato nella cultura, così diversa dalla reticenza grigio-marrone del New England da cui provenivo. E così sono passato al colore. Niente di tutto ciò sarebbe accaduto se non avessi letto prima Graham Green, poi Gabriel García Márquez e altri autori latinoamericani dal magico realismo.
E in tempi più recenti?
Più di recente, l’opera di Octavio Paz mi è servita come portale per dare forma alla mia visione del Messico, che è il motivo per cui ho intitolato il mio nuovo libro, che racchiude 30 anni di fotografie sul Messico, La Calle, dalla famosa poesia omonima di Paz. E il mio ultimo libro con Rebecca, Slant Rhymes, si basa sulla nozione letteraria [un tipo di rima formato da parole con suoni simili ma non identici, N. d. R.]. Abbiamo accoppiato una sua fotografia con una delle mie, “rimando” visivamente le immagini con una tavolozza di colori, un’atmosfera, una geometria o una geografia comuni. Inoltre, il design del libro Slant Rhymes rimanda la sensazione di un libro di poesia, con la sua forma verticale, la copertina di tessuto e la foto incollata sopra.
Rebecca, avete detto che a volte l’ultima immagine di un libro è quella che preannuncia il progetto successivo. L’ultima foto di My Dakota è una foto di tuo padre di spalle che si allontana.
R. N. W.: Penso spesso a Fallen Apples come ultima foto del libro, ma hai assolutamente ragione. Stampato sui fogli finali sul retro di My Dakota, l’ultima immagine è in realtà una foto in bianco e nero di mio padre a piedi, chiamata Under the Siberian Elms, che nel corpo del libro è una fotografia a colori. David Chickey, il direttore creativo di Radius Books e il designer di My Dakota, dice che l’idea di convertire la fotografia a colori di mio padre in un bianco e nero, come fosse una memoria sbiadita, gli è venuta in sogno. David e io siamo molto uniti. È come se avessimo sognato lo stesso sogno.
Che valore ha quell’immagine?
Guardando ora all’immagine di mio padre, mi rendo conto che preannuncia la mia prossima monografia, un lavoro in realizzazione, nel quale ripercorro alcune delle sue chiamate come dottore di campagna, attraverso la stessa contea rurale del Midwest, dove entrambi siamo nati. Si chiamerà Night Calls, perché sto riecheggiando i suoi ritmi di lavoro, fotografando prevalentemente la notte e la mattina presto, quando la maggior parte delle persone entra nel mondo e la maggior parte lo lascia. (Mio padre ha fatto nascere circa 2.000 bambini.)
Ripensando a questa immagine di mio padre 97enne sbiadita come un fantasma, mi rendo conto che Night Calls è anche il mio modo di venire a patti con l’inevitabile morte del mio padre scientifico dalla voce carezzevole e gentile, che mi ha insegnato tanto della vita e della morte e sull’amore per il mondo naturale.
Alex, nelle vostre presentazioni spiegate che l’ideazione e la realizzazione dei vostri libri può variare molto da progetto a progetto. A volte il processo creativo è misterioso e caotico e il senso del viaggio intrapreso si palesa solo alla fine. Esiste un approccio ricorrente nel vostro processo creativo?
A. W.: Probabilmente l’unico aspetto ricorrente del mio approccio è un iniziale senso di curiosità per un progetto e un processo di scoperta. Ogni progetto è un viaggio, ma un viaggio senza una destinazione chiara. Una volta iniziato il viaggio, le fotografie cominciano a dirmi dove devo andare.
Rebecca, recentemente Darcy Padilla in una presentazione a Roma ha raccontato le difficoltà che una donna fotografa incontra in un modo ancora prevalentemente dominato da uomini bianchi. Anche tu hai sperimentato degli ostacoli durante la tua carriera di donna artista e fotografa?
R. N. W.: Gli ostacoli sono un dato scontato, che tu sia una donna fotoreporter, una documentarista, una fotografa d’arte o un qualche complicato incrocio fra le tre. Le domande più essenziali sono: come un fotografo donna affronta quegli ostacoli in modo da poter continuare a fare immagini che siano significative per lei? Come può usare la sua risposta creativa superando questi ostacoli per arricchire, ampliare e approfondire il suo lavoro?
Per me, il lavoro di altre donne creative è stato un sostegno nei momenti più bui. A volte si tratta di rivisitare l’opera di altre fotografe, come Helen Levitt, Graciela Iturbide, Mary Ellen Mark, Diane Arbus, Julia Margaret Cameron, Rinko Kawauchi. A volte si tratta di leggere nuovamente l’opera delle mie scrittrici preferite tra cui Emily Dickinson, Elizabeth Bishop, Virginia Woolf, Marilynne Robinson, Alice Munro. A volte si tratta di rivisitare il lavoro che combina parole e immagini, come libri di Sylvia Plachy, Sophie Calle, Diana Matar, Anne Carson, oltre ai film di Jane Campion, Sally Potter, Sofia Coppola, Mira Nair, Sarah Polley, Asghar Farhadi.
Alex, Rebecca, con l’avvento del digitale è diventato sempre più facile scattare foto, ma sembra sempre più difficile differenziarsi ed emergere nella enorme offerta resa disponibile grazie a Internet. Come insegnanti di fotografia con allievi provenienti da tutto il mondo, qual è il consiglio che dareste loro per trovare la propria visione?
A. W.: Seguite le vostre passioni. La fotografia interessante nasce da un senso di ossessione, una necessità spesso inspiegabile di seguire un progetto o un processo fino alla fine, ovunque esso porti. E poiché la ricompensa nella fotografia è spesso così fugace e incerta, la ricompensa finale può essere solo nel processo.
R. N. W.: Imparate ad ascoltare le vostre immagini. Sono spesso più sagge di voi.
– Lucilla Loiotile
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