Torino e la fotografia. Intervista a Walter Guadagnini
Parola al nuovo direttore di Camera Torino, subentrato a Lorenza Bravetta. Uno sguardo sul presente e il futuro del Centro per la Fotografia torinese, all’insegna di un localismo italiano declinato in chiave internazionale.
L’avevamo intervistato in occasione della presentazione del programma mostre del 2017. Ora, il direttore di Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino Walter Guadagnini torna a parlarcene in occasione della imminente personale di Erik Kessels, precisando meglio la sua visione artistica, dove il “localismo” italiano si accompagna a uno sguardo internazionale.
Dopo solo un anno Lorenza Bravetta ha lasciato la direzione del Centro che lei stessa aveva contribuito a creare e il 1° ottobre 2016 è stato nominato lei all’unanimità dal CdA. Anche se l’esperienza è stata breve, che tipo di eredità le ha lasciato?
L’eredità che mi ha lasciato Lorenza Bravetta è quella di un Centro per la Fotografia riconosciuto a livello internazionale. Girando per il mondo e parlando con i colleghi all’estero, ho notato che Camera, in pochissimo tempo (un anno circa) è riuscito, paradossalmente, a crearsi una sua presenza in un circuito internazionale, più che italiano. Insieme a questo, mi ha lasciato anche in eredità un programma di ottima qualità riconosciuto da tutti.
Qual è l’impronta che vuole dare alla sua direzione?
Io posso cercare di aggiungere a quello che ho trovato forse una maggiore attenzione a un tipo di fotografia più vasto, che significa anche un tipo di pubblico più ampio rispetto a quello cercato e incontrato da Lorenza. L’idea di costruire una serie di mostre anche di carattere tematico, pensate e prodotte internamente, è nata con l’intento di porre alcuni protagonisti della fotografia italiana all’interno di un panorama internazionale. Non è casuale se abbiamo aperto la programmazione di Camera con una mostra – la prima a mia firma – che si chiama L’Italia di Magnum. Da Henri Cartier-Bresson a Paolo Pellegrin. Il titolo e il sottotitolo ribadiscono entrambi questa specifica posizione: Magnum Photos è la più storica e autorevole agenzia fotografica del mondo, ma è anche una storia italiana, perché parte da Henri Cartier-Bresson, grande nome canonico della fotografia mondiale del Novecento, per arrivare a Paolo Pellegrin, che non è solo un nome canonico della fotografia di inizio Duemila, ma è anche italiano. Se vogliamo, all’interno di questo titolo e sottotitolo c’è molto di quello che mi piacerebbe fosse il programma di Camera.
Può fare un bilancio di questi primi sei mesi di mandato come nuovo direttore di Camera?
Dopo soli sei mesi fare un bilancio è difficile, ma posso dire che a livello di staff ho trovato un personale estremamente professionale e motivato. Due cose che non sempre vanno di pari passo, perché ci sono ottimi professionisti che però non amano il loro lavoro e grandi appassionati che però non sanno fare il loro mestiere. In questo caso ho trovato ottimi professionisti giovani, peraltro, che amano quello che fanno e che sicuramente cresceranno ancora. Dal punto di vista del bilancio vero e proprio, la mostra L’Italia di Magnum. Da Henri Cartier-Bresson a Paolo Pellegrin ha avuto un ottimo riscontro di pubblico e di stampa e questo mi fa piacere. Io non sono per formazione, cultura e pratica, uno ossessionato dai numeri, ma non sono neanche uno che ama vedere i musei vuoti e dirsi come siamo intelligenti noi pochi. Credo che se si riesce a condividere la propria presunta intelligenza sia meglio.
A tal proposito lei, in quanto esperto di storia della fotografia e di cultura pop in Italia e all’estero, quali pensa siano i pro e i contro del proporre tematiche di questo tipo in una mostra?
Se devo essere sincero, le mostre in sé e le tematiche in sé non hanno dei pro e dei contro. Tutto dipende dal taglio, da come sono fatte le mostre. Io faccio sempre un esempio banale: quando andiamo all’estero, al Pompidou, alla Tate, al MoMA, nei grandi musei dove vanno tutti e andiamo anche noi, quindi luoghi estremamente popolari, andiamo quasi sempre a vedere mostre altrettanto popolari, fatte in modo tale da attirare un gran numero di persone. Ma il punto è che quelle mostre sono fatte molto bene, scientificamente parlando, sono curate bene dal punto di vista dell’allestimento, in ogni minimo dettaglio. Quindi il problema non è se il tema sia popolare o meno, ma se la mostra sia fatta bene o male: contano il taglio, l’allestimento, la scelta dei lavori. Gli argomenti popolari non è vero che si esauriscano per forza e diano vita a mostre già viste. Di mostre di Magnum in giro se ne vedono una tonnellata, ma il problema è riuscire a fare una mostra di Magnum curiosa, che vada incontro a un pubblico più vasto possibile, che sia neofita, appassionato o esperto. L’importante è che vada a scoprire qualcosa di nuovo. È un po’ quello che succede con il cinema, dove ci sono livelli di lettura diversissimi: credo che si possa fare lo stesso con la fotografia e sia bene farlo con l’arte contemporanea in generale.
Prima di Camera, una fondazione privata, lei è stato direttore della Galleria Civica di Modena dal 1995 al 2005, quindi un’istituzione pubblica. Quali modelli di gestione e governance ha deciso di continuare a usare qui a Torino o, al contrario, ha deciso di abbandonare?
Le due strutture si assomigliano abbastanza, quindi non è che abbia cambiato molto nella mia pratica. Qui, in un’istituzione privata, è tutto più agile, c’è un approccio diverso. È chiaro che rapportarsi con un’entità politica è diverso rispetto a un Consiglio d’Amministrazione fatto di soci che possono essere banche o imprese: questo cambia di molto la prospettiva. Alla fine, comunque, c’è sempre qualcuno a cui rispondere, oltre alla propria coscienza, che sia un assessore o un CdA.
Come intende collaborare con le altre istituzioni cittadine?
La primissima mostra a mia firma è stata una piccola personale di Paolo Ventura, fatta in collaborazione con il Teatro Regio, in occasione del lavoro studiato e realizzato per l’ente lirico dall’artista, autore delle scene e dei costumi di Pagliacci, l’opera di Ruggero Leoncavallo andata in scena al Regio a gennaio. Quindi, il primo gesto pubblico che ho fatto è stato quello di avviare una collaborazione con un’importante istituzione torinese. Ne abbiamo già messe in piedi altre con la Reggia di Venaria, che si svilupperanno nei prossimi mesi.
È in corso fino al 9 luglio il Festival Fotografia Europea di Reggio Emilia, di cui lei è direttore artistico insieme a Diane Dufour e a Elio Grazioli. Poco tempo fa è nato il nuovo Bresciaphotofestival sul modello dei Fotografia Festival di Roma. A Torino potrebbe nascere una manifestazione del genere?
Sì, un festival del genere potrebbe nascere anche a Torino ma, per quel che posso vedere, penso meno a una formula festival che in genere funziona bene su realtà piccole. Però la formula di un qualcosa che riunisca intorno alla fotografia una serie di mostre, incontri, dibattiti coinvolgendo una serie di realtà cittadine pubbliche e private, per un certo periodo, credo sia fattibile e secondo me può succedere.
Fino al 2003, infatti, si è svolta qui a Torino la Biennale Internazionale di Fotografia curata da Anna Detheridge, direttore artistico della Fondazione Italiana per la Fotografia, commissariata nel 2006. Che fine ha fatto il suo patrimonio artistico? C’è un interesse di Camera in tal senso?
La Fondazione Italiana per la Fotografia ha aperto una serie di possibilità, tra le quali c’è stata anche, in fondo in fondo, la nascita di Camera. Quindi, la sua è stata una funzione importante. È chiaro che si tratta di un’esperienza di tanti anni fa, che è nata e che si è svolta in un mondo diverso. Quindi un pensiero ideale a quel tipo di storia c’è sempre, però la situazione è talmente diversa che non vedo altre possibili similitudini. A livello di patrimonio, quello che è rimasto sta in capo alla Regione Piemonte, in deposito alla GAM di Torino. Noi non abbiamo collezioni, non gestiamo gli archivi ma li digitalizziamo, come il grande censimento degli archivi fotografici italiani a cui stiamo lavorando insieme al MiBACT.
In che proporzione le vostre mostre sono interamente prodotte dal museo, coprodotte con altre istituzioni o acquisite da soggetti esterni?
L’Italia di Magnum era prodotta da noi. Quella di prossima inaugurazione su Erik Kessels [aperta al pubblico dal primo giugno al 30 luglio, N. d. R.] è co-prodotta con NRW-Forum, Düsseldorf, mentre Paparazzi è prodotta interamente da noi, ma con segnali di interesse da parte di altri musei per ospitarla successivamente. Idem per la mostra di Carlo Mollino a inizio 2018. Quindi, abbiamo cominciato a ragionare di co-produzione perché questa è una strada che non si può non percorrere. Co-produzioni, noleggi in entrata e in uscita dove si possono prendere mostre da fuori già fatte e dare noi le mostre che facciamo: questa è la prassi comune nel mondo da un sacco di tempo. In Italia c’è un po’ più di resistenza, ma credo sia ormai necessario anche per questioni di budget, di costi che affrontiamo tutti. Oggi fare mostre belle e interessanti diventa sempre più complicato da tanti punti di vista, ivi compreso quello economico. Quindi è chiaro che, nella banalità del famoso detto “l’unione fa la forza”, in questo caso sia la strada da percorrere.
– Claudia Giraud
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