La piccola rivoluzione del Ddl Concorrenza. Foto libere in archivi e biblioteche?
Una norma che doveva essere approvata già nel 2014 insieme all’Art Bonus del Ministro Franceschini. Ma che era stata falcidiata all’ultimo momento. Ecco perché biblioteche e musei non seguono le stesse regole in materia di fotoriproduzione e diffusione d’immagini. Libere foto in liberi archivi? Forse ci siamo!
Tra i recenti disegni di legge più discussi e travagliati, il cosiddetto Ddl Concorrenza – relatore il senatore Pd Salvatore Tomaselli ‒ è passato alla Camera lo scorso 29 giugno, con 218 voti a favore, 124 contrari e 36 astenuti. Varato dal Governo nell’aprile del 2015, è stato modificato in terza lettura da Montecitorio: necessario dunque un nuovo passaggio al Senato, atteso per il prossimo 1 agosto. Anche solo una piccola modifica potrebbe, potenzialmente, riattivare il ping-pong bicamerale: a quel punto il provvedimento slitterebbe ancora, col rischio concreto di impantanarsi, arenarsi e non risolvere il suo iter entro fine legislatura.
Pericolo scampato. Il 27 luglio è arrivato il via Libera della X Commissione del Senato (Industria, commercio, turismo): giunta la relazione tecnica sulle recenti modifiche apportate dalla Camera, giunto il via libera della Commissione Bilancio, i Senatori della X non hanno ammesso nuovi cambiamenti al testo. Era stato chiaro Tomaselli, del resto: “Ne va del nostro onore. Lo approviamo prima della pausa estiva così com’è arrivato dalla Camera e bocceremo tutte le modifiche”. Detto fatto. Nonostante le tensioni intorno a due proposte di variazione in materia di energia e assicurazioni, la maggioranza ha evitato l’ennesimo rimpallo.
Ma perché tante e tali resistenze? Il fatto è che il Ddl chiama in causa, col suo groviglio di normative, lobby economiche, albi professionali, settori strategici del commercio, del turismo, del diritto d’autore. Un provvedimento volto a garantire, regolare e aumentare la concorrenza nel campo delle assicurazioni, della telefonia, dei servizi bancari, della distribuzione cinematografica e di quella dell’energia e del gas naturale, arrivando alle categorie di avvocati, notai, dentisti, farmacisti. Facile immaginare la selva di interessi, rischi e rivendicazioni che vanno a incrociarsi in un decreto di tale portata, determinando continui aggiustamenti.
E nel pacchetto non mancano misure che – in tema di semplificazione ‒ interessano il mondo della cultura e della comunicazione. E anche qui la discussione è stata accesa, a partire dai nuovi criteri che facilitano la libera circolazione dei beni storico-artistici, per finire con la norma che regolamenta il product placement sul web: divi, celebri blogger e social influencer saranno obbligati a “identificare in modo univoco” la presenza di segnalazioni pubblicitarie nei loro contenuti. Insomma, mai più Chiara Ferragni e Fedez, brandizzati e vetrinizzati, a portare a spasso réclame dissimulate. Anacronismi in era 2.0, presumibilmente superflui o inefficaci – al netto del giusto principio di trasparenza – in rapporto a usi, costumi e media del presente: tutto è immagine e comunicazione, i confini tra realtà e marketing si assottigliano, e il concetto di celebrità muta. Basti guardare la selva di anonimi youtuber, famosissimi nelle loro community di riferimento.
LA BATTAGLIA PER I BENI BIBLIOGRAFICI E ARCHIVISTICI
Ma c’è un’inspiegabile contraddizione che il Ddl Concorrenza andrebbe finalmente a sanare e di cui poco si discute, al di là degli specifici milieu professionali. Si tratta della possibilità di liberalizzare e semplificare la fotoriproduzione di beni custoditi in biblioteche e archivi: libri, giornali, riviste, cataloghi d’arte, documenti, fotografie, disegni, stampe, mappe, manifesti, lettere, ecc. Patrimoni straordinari, che oggi restano sotto strettissima tutela, al contrario di quelli che sono invece conservati o esposti nei musei. Risale infatti al 2014 la piccola rivoluzione compiuta con l’Art Bonus del Ministro Franceschini, in cui si spezzava – finalmente – l’originaria aura di sacralità e inviolabilità che impediva a qualunque obiettivo fotografico di catturare frammenti di mostre o collezioni. Neanche il cellulare più scadente, la foto più sgranata e l’evidente approccio amatoriale bastavano a rassicurare: gli scatti nei musei erano tabù. La loro diffusione pure.
Quadro oggi radicalmente cambiato, in presenza di alcune garanzie: assenza di scopo di lucro, assenza di sorgenti luminose o cavalletti, assenza di contatto fisico, bassa risoluzione. Per il resto, libertà di fotografare e divulgare, se per “finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale”. Tutto, fuorché la speculazione commerciale. E però, un emendamento inserito in corner e in sordina aveva escluso dal nuovo assetto i famosi beni bibliografici e archivistici, anche se non più coperti da diritto d’autore. Perché?
BENI TROPPO FRAGILI? BASTA UNO SMARTPHONE!
Tre le criticità evidenziate c’è quella della fragilità dei suddetti beni, la cui fotoriproduzione andrebbe in contrasto con l’intangibilità menzionata – nel caso di opere d’arte – dall’articolo 12 dell’Art Bonus. La riproduzione è cioè consentita se “attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né l’uso di stativi o treppiedi”. Ora, evitare il contatto con libri, stampe, materiali cartacei, per poterne fotografare delle parti, è per lo più impensabile; ma si tratta di un contatto che avviene anche nel caso della semplice consultazione. E allora? Non si spiega. Fu infatti il Consiglio superiore dei “Beni culturali e paesaggistici” a pronunciarsi con una mozione, nel maggio 2016, suggerendo al Parlamento una via d’uscita, dietro sollecitazione del Ministro Franceschini. L’obiettivo? Rimediare a quell’assurdo emendamento che tradiva lo spirito dell’Art Bonus. Questi alcuni dei criteri indicati:
1) La riproduzione con mezzo proprio dei beni bibliografici e archivistici, a fini personali e di studio, sia resa gratuita e senza limitazioni nel numero di scatti in caso di testi di pubblico dominio.
2) In presenza di mezzi di riproduzione a distanza (fotocamera o smartphone) non si determinerà un contatto diretto con il supporto potenzialmente lesivo per l’integrità del bene.
3) In caso di materiale particolarmente fragile si pongano precauzioni in sede stessa di consultazione, senza perciò escludere preventivamente dalla riproduzione categorie o unità documentali.
Altri criteri riguardavano, ad esempio, la semplificazione della prassi burocratica per la concessione della pubblicazione: non più una richiesta formale di autorizzazione, ma l’invio di una semplice comunicazione via mail, mantenendo l’obbligo di citare la fonte e di “consegnare una copia analogica o digitale dell’elaborato”.
Tornando al tema “sicurezza”, è Mirco Modolo, tra i coordinatori del movimento Fotografie libere per i Beni Culturali, a rassicurare ulteriormente: “La diffidenza verso la riproduzione è ormai da considerarsi residuo di timori del passato prossimo, forse comprensibili fino a una decina di anni or sono, in presenza cioè di mezzi di riproduzione a contatto come macchine fotocopiatrici o scanner (in uso fino a pochi anni fa negli archivi per riprodurre registri cinquecenteschi). Lo è invece assai meno oggi se si pensa agli attuali dispositivi di riproduzione a distanza come le fotocamere digitali compatte e smartphone. La tecnologia sempre più avanzata di questi mezzi consente di ottenere immagini di qualità per le necessità della ricerca anche in condizioni di illuminazione apparentemente sfavorevoli. Anzi, la riproduzione con mezzo proprio può al contrario essere un alleato per la conservazione, nella misura in cui riduce la movimentazione dei pezzi e l’inevitabile usura determinata dal reiterato contatto con le pagine dei volumi nel corso della consultazione”. I timori dunque suonano come immotivati e inattuali. Tant’è che – ricorda ancora Modolo – “negli archivi parigini da anni si può fotografare liberamente tutto ciò che si consulta in via ordinaria, nel rispetto delle norme a tutela della riservatezza dei dati”.
FRA INTERESSI ECONOMICI E MUTAMENTI CULTURALI
Non solo. Riproduzione libera in Francia, ma pure in Italia in certi casi. Vedi il celebre Gabinetto Stampe e Disegni degli Uffizi, che conserva preziosissimi capolavori su carta di artisti prevalentemente rinascimentali. A sorpresa, la fotoriproduzione è qui consentita secondo le regole fissate dall’Art Bonus. Come mai? Un fatto puramente formale. L’Istituto non è un archivio, non è una biblioteca, ma è ufficialmente una sezione di un museo. Paradossi italiani.
E intanto, fra contraddizioni, incoerenze e fastidiosissime limitazioni inflitte agli studiosi, spunta anche il côté economico. Che gioca un suo ruolo nell’odiosa restrizione. Attualmente alcuni istituti consentono – dietro autorizzazione – la fotografia dei beni con “mezzo proprio”. Ma occorre pagare. Piccole tariffe di cui non si comprende la ragione (a parte il pur modesto introito per le istituzioni stesse): se uso la mia fotocamera, quale onere arreco all’archivio in questione? Mistero. In altri luoghi, o per certe specifiche sezioni documentarie, l’uso del “mezzo proprio” è invece proibito. Ecco allora che biblioteche e archivi, per qualunque esigenza di fotoriproduzione, si rivolgono a ditte private a cui concedono appalti esclusivi dietro tariffazioni di mercato.
Una cosa, infine, è certa. A giovare della diffusione di immagini d’archivio o di volumi storici sarebbe, ça va sans dire, il cittadino comune alle prese con ricerche e consultazioni: niente più lunghe attese per ottenere le liberatorie, niente più burocrazia, niente oboli, e magari – potendo reperire in rete alcuni materiali – la possibilità di evitarsi viaggi costosi e faticosi.
L’ostacolo maggiore, però, era e resta culturale. Quell’idea di tutela radicale che si nutre – non solo di reale cura – ma di aprioristica diffidenza verso chi consulta o di ostilità verso il concetto di condivisione, di bene messo in comune, di accesso alle fonti. Dura da abbattere è l’obsoleta concezione esclusivista legata alla proprietà istituzionale: tutelare e custodire non è possedere, tanto meno sottrarre allo sguardo e alla conoscenza.
Il Ministero sembra aver recepito il concetto, e così chi, tra le file della politica, sta provando a porre rimedio. Pochi giorni ancora e il Ddl Concorrenza dovrebbe arrivare al traguardo. Con dentro un’altra piccola, silenziosa, significativa svolta, intitolata alla libera circolazione del sapere. Una norma apparentemente inessenziale, rispetto a casi retoricamente clamorosi, dall’abolizione dei vitalizi all’estensione della legittima difesa. Ma è un fatto – qui sì ‒ di prospettiva democratica. Che fa assai meno consensi del populismo caciarone, ma che il Paese – culturalmente ‒ lo migliora davvero.
Helga Marsala
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