Le innumerevoli vite di Erik Kessels. A Torino
Camera, Torino – fino al 30 luglio 2017. Resta giusto un weekend per visitare la retrospettiva di Erik Kessels. La sua prima grande antologica, allestita con cura da Francesco Zanot. Per scoprire un autore-fotografo dai mille volti e dalle mille idee.
Editore, curatore, pubblicitario. E naturalmente fotografo. Sono queste le ragioni – anzi, non sono nemmeno tutte – per le quali la prima grande retrospettiva di Erik Kessels (Roermond, 1966) si intitola The many lives of Erik Kessels. Un punto d’onore di cui vantarsi, per Camera, il Centro Italiano per la Fotografia di Torino, e per il curatore Francesco Zanot: una mostra che fa il punto su un mid-career di successo, con un catalogo retrospettivo edito da Aperture di New York e una seconda tappa (non l’ultima, con ogni probabilità) della rassegna già programmata a partire dal 5 agosto al Kulturzentrum NRW-Forum di Düsseldorf.
CELEBRITÀ ED ESPOSITORI
È la sua opera più nota, tanto vale dunque parlarne subito: 24hrs of Photos (2011) è un’installazione che letteralmente invade di volta in volta il luogo in cui è allestita, e ovviamente cambia ogni volta. Perché si tratta della stampa delle foto che gli utenti caricano in un giorno su Flickr. Qualcosa come 350mila scatti, che in questo caso debordano dalla sala che Camera ha loro dedicato, per raggiungere quelle vicine e il corridoio. Si possono calpestare – è inevitabile –, forse anche prenderne qualcuna, sfogliarle, rimetterle nel mucchio. L’era dell’occhio, del dominio scopico, resa visibile con un gesto semplice ed efficace.
Da qui si nota subito quanto Kessels sia attento alla chiarezza del messaggio che trasmette e dunque alla modalità di esporre e disporre il messaggio stesso. Sono opere, cioè, che non possono prescindere dal loro stesso allestimento, dal display. Una procedura evidente anche in All Yours (2015), dove parte della collezione di “fotografie vernacolari” appartenente all’autore è disposta su quegli espositori girevoli di cui, è plausibile, le prossime generazioni avranno soltanto memoria indiretta.
SERIE, SERIE AL QUADRATO E APPROPRIAZIONISMO
Kessels lavora per serie; non gli appartiene la logica dello scatto singolo, dell’opera standing-alone, men che meno del capolavoro. Anzi, in almeno un caso – che però è esemplare – si tratta di serie che appartengono a un ciclo, quindi serie al quadrato: così è per in almost every picture, iniziata nel 2002. E, in gran parte dei casi, la produzione fotografica di Kessels è ri-produttiva: non sono suoi gli scatti, ma gesti di appropriazione di altrui fotografie, di altrui serie, di altrui album fotografici, al limite di interventi operati su altrui stampe.
Dicevamo di in almost every picture: è il fil rouge che attraversa la sua intera opera e che prosegue ancora oggi. Tutto è cominciato con centinaia di fotografie acquistate in blocco in un mercatino di Barcellona: su ogni stampa, lo stesso soggetto, una donna fotografata dal marito, lei soltanto, durante viaggi o nei luoghi in cui viveva. Anni di fotografie e anni per scoprire chi fosse: Josephina Iglesias. Ma questo nulla aggiunge e nulla toglie alla sensazione di amore ossessivo che le istantanee trasmettono.
L’anno successivo, la protagonista è una donna disabile, ritratta dall’autista di un taxi danese: sempre quell’auto nera, una berlina, sempre lui ad accompagnare la signora – evidentemente benestante – attraverso l’Europa. Nulla di più claustrofobico di questo turismo interrotto e frustrato, in atmosfere che ricordano La finestra sul cortile di Hitchcock, opposte e uguali.
Così si prosegue, con la settima tappa (2008-in progress) dedicata all’ormai 81enne Ria van Dijk, ritratta ogni anno – fatta salva la pausa durante la Seconda guerra mondiale – mentre spara al tiro a segno in feste di paese. Ritratta da altri, naturalmente. E poi c’è stato (2011) Jean-Paul Cuerrier, il fotografo della mascotte del ristorante Au Lutin Qui Bouffe di Montréal: un maialino che si aggirava fra i tavoli e che da tutti era coccolato e nutrito. 250 fotografie a sera, si dice.
KESSELS QUANDO FOTOGRAFA
Qualche scatto lo fa anche Kessels, sia chiaro. My Family è una serie affascinante: non tanto per i soggetti, ma per la sociologia della ricezione. Sono tutti ritratti ravvicinati dei suoi figli, fatti immediatamente dopo normalissimi incidenti di gioco. Nasi sanguinanti, occhi pesti, qualche lacrima. La fotografia come terapia apotropaica, ma agli occhi degli altri è subito stabilita l’equivalenza bambino-ecchimosi-violenza (sessuale). Il ritratto, infantile soprattutto, ha da essere cosmetico.
Se qui il turbamento è immediato, altrove è ancora più profondo perché mediato: che tenerezza quel brevissimo Super8; si intitola My Sister (2002), quindi dev’essere lui, Erik Kessels, dall’altra parte del tavolo da ping pong. Sì, però poco tempo dopo la sorella venne uccisa: era il 1977. E quello è un lamento funebre, l’elaborazione infinita (in loop) di un lutto gigantesco.
Meglio tornare a qualcosa di apparentemente più leggero, come tutte quelle anonime e accidentali presenze in My Photoalbum (2007): qualcuno, una volta, ha calcolato in quante decine, centinaia di scatti ognuno di noi è presente. Nelle fotografie degli altri, nelle vite degli altri.
– Marco Enrico Giacomelli
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