Da Luchino Visconti alla fotografia. Intervista a Guido Taroni
“Vissi d’arte, vissi d’amore”: l’incipit della celebre aria eseguita dalla sua adorata Callas potrebbe riassumerne perfettamente la vita. Il giovane fotografo cresciuto tra il colore e le vicende di casa Visconti racconta il suo lavoro, la sua famiglia e i suoi sogni.
Guido Taroni (Milano, 1987) ha gli occhi di sua madre, la voce profonda e una miriade di ricci che seguono diverse direzioni, tutte quelle che si è prefissato. “Sono un po’ ossessionato dalla gentilezza. Se mai avrò dei figli mi piacerebbe trasmettere loro la stessa educazione che ho ricevuto io; sento che in me ha prodotto effetti tangibili”.
Ciò che colpisce sin da subito sono proprio i suoi modi da gentiluomo e quella semplicità che non è facile preservare se sei un giovane di talento e provieni da una delle famiglie più antiche d’Italia, i Visconti. Per lui la famiglia è fondamentale perché gli ha insegnato l’importanza di lasciare un segno, concesso la libertà di essere chi voleva e fatto capire quando era il momento di osservare rimanendo in silenzio; e di questo ne ha fatto tesoro.
Il rapporto con la fotografia è stata una naturale conseguenza delle proprie scelte, complici l’esperienza all’interno dello studio Sancassani e la guida di quello zio che ama chiamare semplicemente “Gio” [Giovanni Gastel, N.d.R.]. “In realtà non volevo fare il fotografo, non ci avevo mai pensato. Mi piaceva considerare le foto come oggetti capaci di trasmettere ‒ così come un quadro ‒ una sensazione, ma non avrei mai immaginato che un giorno a scattarle sarei stato proprio io!”.
DIVENTARE GRANDE
La sua prima personale, Sogni sospesi, ha segnato il suo diventar grande: “Era un momento d’infelicità dal punto di vista lavorativo poiché non riuscivo a ottenere grandi riscontri. Avevo già acceso il mutuo di casa e volevo cavarmela da solo! Ho persino pensato di lasciare l’Italia per diventare assistente di qualche importante fotografo, ma poi ho capito che il mio posto era qui; mi sento pienamente italiano e Milano è una città fantastica per i miei progetti”. La prima mostra, oltre ad avergli dato la consapevolezza necessaria per proseguire nel suo percorso, gli ha permesso di stringere un legame indissolubile con la bisnonna Carla Erba, personaggio straordinario di cui aveva sempre sentito parlare ma con la quale non era mai riuscito a entrare in contatto fino a quando ha pensato di archiviarne una serie di abiti ritrovati nella villa di Cernobbio.
“Questa rappresentava una mia piccola scoperta che mi legava intimamente a lei. La chiave di tutto ciò che mi piace è racchiusa in quel lavoro, e c’era già 10 anni fa. Tutto quello che poi ho fatto, guardandolo con questa luce, era proprio dentro di me”. Gli originali della mostra non li ha mai venduti e dominano un’intera parete del suo loft perché ama “averli intorno” quasi a creare un filo col passato, soddisfacendo una sua insolita spiritualità. “Casa mia è il luogo in cui adoro ritrovarmi perché non sembra neanche di stare a Milano, ma il mio posto del cuore è decisamente il lago”. La vita a Como racchiude in sé quel tratto di nostalgia proprio del suo carattere e una sana malinconia che è sempre riuscito a incanalare in un efficace processo creativo. Il lago ha rappresentato svago, analisi e un’improvvisa crescita.
“Sono un mix di mamma e papà! Ritrovo in me moltissime espressioni tipiche di mio padre. Lui ci ama moltissimo. Quando io e mia sorella eravamo piccoli trovava sempre un modo per farci giocare anche con poco. Questo ha sicuramente contribuito ad accendere la mia fantasia. A lui devo la mia indipendenza, il voler essere sempre preciso e puntuale ma soprattutto la mia passione per il colore!”. Il padre Giorgio è stato per anni un noto disegnatore di tessuti che ‒collaborando tra gli altri con Oscar de la Renta, Versace e Valentino ‒ ha saputo infondergli il gusto per la forma e l’ordine tipiche di un vero collezionista [tra le diverse collezioni ne possiede una di circa 30mila coleotteri, N.d.R.]. La casa di Cernobbio è un vero scrigno di ricordi custoditi dalla madre Anna che, attraverso i racconti riguardanti lo zio Luchino e coloro che gravitavano attorno a lui, fa rivivere vicende senza tempo che incantano chiunque abbia il privilegio di ascoltarle. Percorrendo le numerose stanze della grande villa è palpabile il legame con la figura di Guido Visconti di Modrone, fratello maggiore di Luchino, da cui ha ereditato il nome e un anello che porta sempre al dito quasi a onorare un atto di fede: “Lui aveva una grande imponenza e degli occhi espressivissimi. Amava tanto la madre e i fratelli e in seguito al trasferimento in Libia celava dentro sé la nostalgia per il suo Paese e i suoi cari. Era un essere fuori dal comune che ha trasmesso senza volerlo dei preziosi insegnamenti, giunti sino a me”.
VIVERE IL PRESENTE
Nonostante il passato lo affascini moltissimo, Guido vive il suo tempo perché “non ci si può permettere di restare fuori dal mondo”. Il suo animo da rêveur lo riversa interamente sul suo lavoro e sulla passione per Tim Walker, del quale ha sempre ammirato “la purezza, l’armonia e quel giusto punto di sogno”. Emblematico è infatti il lavoro realizzato nel 2012 per Furla in cui, attraverso un unico scatto, è riuscito ad appagare il suo desiderio di rappresentare uno stato d’animo universale, svincolandolo dal tempo.
“Per me la fotografia è soprattutto estetica. Non sono molto legato al mezzo poiché spesso ci si concentra su tecnicismi tralasciando la composizione dell’immagine in sé. Avendo una spiccata memoria visiva riesco a mischiare tutto ciò che mi colpisce della mia quotidianità, dunque è difficile vedermi in giro con la macchina al collo. Oggi si fa sempre più fatica a emergere perché c’è una feroce concorrenza. Occorrerebbe lavorare su sé stessi e sulla propria identità; fotografare è una sfida, mettersi a nudo”.
Certi ambienti milanesi, si sa, sono spietati ma se si prova a domandare in giro di lui ci si sentirà dire all’unisono: “È bello fuori e dentro!”. La sua eleganza pulita e il suo fascino per certi versi d’antan gli sono valsi l’appellativo di Best Dressed Man secondo le riviste Elle e GQ, e la consacrazione a giovane icona di stile grazie al Chi è Chi Award nel 2016.
“La vera bellezza viene fuori quando ti vesti di meno cose possibili; è sufficiente un’armonia di forme e colori. L’eleganza è fatta di gesti, di educazione nel quotidiano. Ritengo che sia necessario ripulirsi anche nel vestire. Uno stile troppo carico distanzia, intimidisce; viene fuori un qualcosa di artefatto che ti blocca. Non mi piace mai la via di mezzo; in qualsiasi ambito! Nella moda è giusto osare, ma è anche necessario che questa risulti indossabile”.
UNO SGUARDO AL FUTURO
Il suo animo da bravo ragazzo viene fuori quando mi confessa, con la stessa tenerezza che di solito si concede a un amico, di non aver mai fatto uso di droghe: “A me piace divertirmi. Mi diverto tantissimo anche lavorando. Il ballo e la musica sono una potentissima valvola di sfogo, così come la mia passione per l’arredamento. In discoteca mi scateno, esco sudato fradicio e poi vado a letto!”.
Esigente con sé stesso a tal punto da voler seguire i suoi progetti in ogni singola fase, Guido ha collaborato con realtà come Vogue, Bulgari e Fendi, mettendo al centro il suo amore per il colore. Prevista per ottobre l’uscita di un volume fotografico sul lavoro di Renzo Mongiardino edito da Rizzoli International in collaborazione con Cabana Magazine e Martina Mondadori Sartogo; durante tutta la prossima stagione invece i suoi scatti animeranno l’esclusiva mostra Beauty Is My Favourite Colour ‒ realizzata per il marchio di alta gioielleria di Giampiero Bodino ‒ che toccherà Londra, Milano e New York.
Il sogno di Guido è fantastico, autentico, umano e per questo non privo di salite: “Amo pensare che la catena non s’interrompa. Mi hanno insegnato quanto sia bello lasciare dei segni, far continuare i racconti. Mi piacerebbe vedere da un’altra prospettiva tutto ciò che ho visto e provato io; spero di riuscirci”. Guido ha una miriade di ricci, la voce profonda e gli occhi di sua madre; e in quelli si riconoscerà sempre.
‒ Marco M. Latorre
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