Talenti fotografici. Intervista a Nicolò Cecchella
Nicolò Cecchella è il nuovo talento scovato da Angela Madesani per la nostra rubrica di fotografia. Ma le sue passioni non si limitano all’obiettivo.
Nicolò Cecchella, classe 1985, vive a Poviglio, un piccolo Comune della bassa reggiana, e a Roma. Da sempre è attratto dal disegno, dalla materia, dalla scrittura. Inizia a interessarsi alla fotografia negli anni dell’adolescenza, quando frequenta il liceo scientifico. Fotografa il suo circostante, le ritualità contadine. Dà così vita a piccole narrazioni di valore esplorativo. Poi si iscrive alla facoltà di Lettere.
Con il passare del tempo la fotografia diventa un linguaggio precipuo all’interno del tuo cammino nell’arte.
È stata una conseguenza di quanto avevo fatto precedentemente. C’era da parte mia il desiderio della scoperta di un mezzo, in grado di dar vita a immagini autonome. Da un certo punto è stato rimarchevole il fatto che la fotografia sia diventata la mia chiave di lettura e di interpretazione della rappresentazione.
È come un tentativo di annullamento del concetto di autorialità. È diventata la tua lente verso l’esterno. Una lente particolare, filtrata dalla storia dell’arte, come nel drammatico lavoro sull’uccisione del maiale.
Era uno degli eventi più acuti che avevo visto sino a quel momento, che mette in relazione vita e morte.
Il tuo lavoro da qualche anno si è andato concentrando in altre direzioni?
Sì, diciamo che si è asciugata la parte narrativa. La mia ricerca si è concentrata sul senso stesso della rappresentazione. Vorrei riuscire a cogliere l’origine del visibile.
Il tuo lavoro più recente, Phosphora, presenta dei boschi. Sui tronchi degli alberi hai posto delle garze, che hai spennellato con fosforo puro, e poi li hai fotografati, di notte, con un tempo ampio di apertura del diaframma. Le parti fasciate risultano, così, verdi fosforescenti.
È un ragionamento sulla materialità della fotografia, della luce. Cercavo una sorta di convergenza, di stallo tra la realtà di un archetipo immaginario e un’astrazione totale, che si genera a partire da un paesaggio reale. Pensando solo in termini di luce, buio e rappresentazione. In assenza di figura, guidare il pensiero verso ciò che non si può vedere. È un lavoro a metà tra il senso della rappresentazione occidentale e quello orientale.
L’immagine è sempre doppia anche quando è una sola. C’è uno spazio interstiziale tra il bordo della figura e il suo sfondo, che tormenta la presenza.
Mi pare un lavoro sulla visione: il buio impedisce di vedere, bisogna prestare un’attenzione maggiore. È un auspicio in un momento come il nostro, in cui tutto si consuma in un batter d’occhi. Un’altra tua ricerca recente, assai raffinata, presenta antiche sculture mutile.
È un lavoro su ciò che resta del rappresentato. La statuaria è solo un pretesto dal quale sono partito. Sono foto prese nei musei di Roma, la città in cui vivo per metà del mio tempo.
Mi interessa particolarmente la libertà con la quale ti muovi tra i diversi linguaggi.
Non ti servi della sola fotografia. Ha realizzato queste sculture di terra cotta, Volto terra, dei calchi del tuo volto, in cui mi pare di capire che, però, non c’è nessun intento ritrattistico.
Mi interessava avere un volto umano e il più comodo è il mio.
Uno di essi è stato dipinto internamente con della pittura al platino, che costituisce anche un richiamo alla fotografia.
Il discorso è ancora una volta sull’immagine e sulla rappresentazione: la tematica dello specchio, del riflesso della luce che è all’interno del solco. Il nostro occhio è il solco, uno specchio liquido e la luce la nostra percezione del mondo. Se con la fotografia l’immagine nasce da un procedimento ottico, qui nasce dalla terra, elemento primigenio, attraverso la presa del calco. La terra genera un’immagine positiva, il volto dell’uomo: mi sembrava di andare vicino allo snodo cruciale della rappresentazione, unendo una parte eterea, data dal riflesso, e una parte materica. Con il calco si ha un contatto diretto con la realtà, senza nessuna mediazione con l’autore: è una sorta di embriogenesi.
Il calco e l’impronta costituiscono, in semiotica, il concetto di indice.
Mi affascina la sua semplicità, è il primo gesto scultoreo, che in qualche modo è alla base della rappresentazione. La terra raccoglie la testimonianza di ciò che fa pressione su di essa.
È un’idea assai vicina a quella della fotografia analogica. Recentemente hai fatto anche esperimenti con una tecnica ottocentesca come il procedimento al collodio.
I lavori col collodio discendono da Volto Terra. Già col platino il processo si indirizzava verso un’interazione diretta della luce: l’immagine si perde quasi completamente, il volto diventa un luogo di luce e di riflessi. Mentre nella fotografia del volto, realizzata con il collodio, ci troviamo di fronte a un’immagine fissata, ma allo stesso tempo mutevole nello spazio atmosferico. La luce la attraversa continuamente e varia infinite volte, così che l’immagine subisce delle trasformazioni.
Hai una variabile continua data dalla luce.
Che esiste e non esiste in base alla sua possibile visione.
La tua non è una passione nei confronti di tecniche ormai desuete. Ti sei servito del collodio perché aveva certe caratteristiche. Non vi sono virtuosismi di sorta da parte tua, mi pare di capire.
Esattamente, sono molto vicino ai materiali e buona parte della suggestione si genera a partire dalla prossimità che ho con una determinata materia. Mi interessa giungere a un momento archetipico attraverso la vista, la fotografia, la materia.
Anche il volto che hai creato è archetipo dell’umanità.
Forse alla base di tutto questo è una ricerca di verità, che per essere identificata vuole svincolarsi dalle forme classiche del rappresentato.
Tra breve pubblicherai in Francia alcune tue poesie in una raccolta sulla poesia italiana contemporanea. Che rapporto corre tra la scrittura e la ricerca artistica?
Un rapporto intenso. I testi poetici hanno sempre lavorato forse più per immagini che per altro. Ci sono tematiche ricorrenti: la luce, l’inizio del giorno, il corpo e anche in quel contesto mi pare che via sia un’indagine sul concetto di rappresentazione. Il titolo della raccolta è un mio verso: Scardinate matrici del sole.
‒ Angela Madesani
ha collaborato Silvia Gazzola
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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