Vivian Maier e l’arte di sparire tra la folla. Storia di un’icona per caso

Si chiude un lungo tour espositivo, in Italia, che ha celebrato una nuova star della fotografia contemporanea. Il caso Vivian Maier conquista il grande pubblico e la critica: un talento emerso dal nulla, con una personalità sfuggente e una vita modesta. La bambinaia con la Rolleiflex al collo, che cercava un posto nel mondo.

La solitudine di Vivian Maier (New York, 1926 – Chicago, 2009); la sua vita fatta di severità e invisibilità, tra una famiglia mancata – restò nubile e non ebbe figli -, una carriera d’artista non cercata e l’assenza di una rete autentica di relazioni: affettive, sociali, professionali. Di mestiere bambinaia, viveva nelle case di altri, coi bambini degli altri, osservando gli altri per strada, durante le sue quotidiane passeggiate tra i quartieri borghesi di New York e Chicago. Gli altri. La sua maniera d’esistere. Quasi che esistere significasse sparire nel mondo, diventarne l’ombra, il riflesso, il passo schivo tra l’asfalto e lo skyline metropolitano. Quasi si trattasse di svanire nelle cose, nei volti, nei gesti, tra i marciapiedi affollati, negli occhi di chiunque. E farli suoi, nutrirsene, con quella pratica ossessiva e ‘dilettantesca’ della fotografia. Stampare, poi, non era essenziale: quel che contava era lo “shoot”, lo sparo, l’occhio puntato, la presa furtiva e fulminea. Quanto bastava per restituire un senso ulteriore alle cose e consegnarle all’eternità.

Vivian Maier, Undated, Canada. Vivian Maier/Maloof Collection, courtesy of Howard Greenberg Gallery

Vivian Maier, Undated, Canada. Vivian Maier/Maloof Collection, courtesy of Howard Greenberg Gallery

VIVIAN E DIANE. UGUALI E DIVERSE

Scattare foto, per questa Mary Poppins con una Rolleiflex al collo e poi con un’inseparabile Leica, fu una formula ben studiata “per riuscire a trovare un posto nel mondo”. Qualcosa di simile aveva sentito, con diversi esiti e motivazioni, l’immensa Diane Arbus, sedotta anche lei dalla potenza dell’alterità (“la fotografia era una licenza di andare dove volevo e fare quello che volevo”, superando “l’immunità” di un’infanzia borghese e ovattata). La sua ombra – insieme a quelle di Elliott Erwitt, Paul Strand e molti altri – appare nel lavoro della Maier per cenni e rimandi, probabilmente casuali, incredibilmente maturi. Dilettante sì, senza una formazione artistica e del tutto disinteressata a sfondare, in linea con alcuni tra i più straordinari casi di Outsider Art; ma con una sensibilità per l’immagine, per la composizione, per lo studio del soggetto, certamente alimentata da confronti e informazioni, divorando riviste, giornali, libri, film.
E se la Arbus inseguiva il mostruoso e il diverso, cercando la vita laddove faceva rima con la morte ‒ o quantomeno con la sua ombra sbilenca –, per Maier vita significava rumore quotidiano, linee di strade e di palazzi, dettagli inessenziali e fragore di persone lungo le arterie cittadine. Un esercizio polifonico, una forma di resistenza rispetto a una biografia modesta, consumata come una lunga esplorazione solitaria; ma anche rispetto allo scorrere implacabile del tempo: “Ho fotografato i momenti della vostra eternità perché non andassero perduti“, scrisse un giorno in una lettera, idealmente indirizzata ai “suoi” bambini ormai cresciuti. Eternizzare il quotidiano, salvandosi, salvandolo.

Diane Arbus, Identical twins, Roselle, N.J. 1967. Courtesy The Estate of Diane Arbus

Diane Arbus, Identical twins, Roselle, N.J. 1967. Courtesy The Estate of Diane Arbus

L’imponente serie di negativi che la Maier ci ha lasciato è allora una collezione casuale e progressiva di campionari d’umanità, prelevati dal suo habitat. Un archivio enorme, da cui non sono del tutto assenti il giudizio morale o il timbro emotivo: ed è lo sguardo che si posa con tenerezza sui più piccoli; con compassione sugli ultimi, gli anziani, gli homeless; con simpatia sui proletari; con ironia sulle signore impellicciate dell’upper class, colte nella smorfia obliqua dei loro modi altezzosi, intrinsecamente snob.
Così Vivian leggeva il mondo che le si affollava intorno, polverizzato nella miriade di facce e di storie senza nome, senza trama, senza epilogo. Giusto dei flash, da masticare con delicatezza d’animo e voracità di sguardo. Ma anche con un distacco forse salvifico, forse necessario: una distanza di sicurezza. Stare un passo in là rispetto alla vita, così come non volle fare Arbus nella sua corsa disperata incontro alla verità più perversa, contorta, convulsa: l’una visse a lungo, nello spazio anonimo e quieto che si era ritagliata; l’altra si arrese, dinanzi all’impossibilità di placare la sua sete e le sue voragini antiche. E ne morì.

Vivian Maier ©Vivian Maier / Maloof Collection

Vivian Maier ©Vivian Maier / Maloof Collection

AUTORITRATTI IN DISSOLVENZA

E quando per Vivian non erano scatti dedicati ai passanti e agli estranei, erano autoritratti. A dimostrazione di quanto fosse centrale il tema del sé in questo suo confondersi col mondo. Scatti potenti, bellissimi, sempre costruiti per riflessi, tra uno specchio, la vetrina di un negozio o l’ombra sulla strada, con lo sguardo basso dentro la macchina a pozzetto, immortalando l’atto stesso del fotografare, del fotografarsi: mai in posa, raramente con gli occhi dritti sulla propria immagine, mai a definirsi come una silhouette chiara, concreta. Uno “spectrum”, piuttosto: presente per assenza. E in certi casi l’assenza diventava davvero l’unica e l’ultima possibilità. Come quando fotografò il suo capotto, disteso per terra, come un guscio autunnale da cui il corpo era evaporato, definitivamente. Il fantasma di sé, trasfuso nel mondo, era protagonista invisibile di raffinati scatti concettuali, preziose chiavi di lettura di tutto il suo lavoro.

Vivian Maier, Self-Portrait, Undated. Vivian Maier/Maloof Collection

Vivian Maier, Self-Portrait, Undated. Vivian Maier/Maloof Collection

SCOPRIRE VIVIAN MAIER

Vivian Maier morì in solitudine, com’era vissuta. Totalmente sconosciuta. Costretta anche a vendere le sue cianfrusaglie per ricavare qualche soldo. A imbattersi in quel tesoro fu John Maloof, un agente immobiliare di Chicago, tutto preso da alcune ricerche storiche e iconografiche su un quartiere della città, a cui voleva dedicare una pubblicazione. Gli capitò così di acquistare all’asta uno stock di negativi, abbandonati in un magazzino, gli stessi di cui lei si era disfatta. Maloof li sbirciò, capì che non erano utili alla sua indagine, e li mise da parte. Dopo un paio di anni se li ritrovò fra le mani e iniziò a guardarli per davvero. E qualcosa, a quel punto, accadde. Una specie di innamoramento. Lì dentro c’era un universo, c’erano segmenti interi di un’esistenza di cui nulla sapeva e che però sentiva di dover ricondurre alla luce. E c’era un nome di donna scritto su un foglietto, un nome qualunque, l’unica traccia da cui partire.
Decise persino di imparare a stampare: allestì una camera oscura e da quei negativi iniziò a tiare fuori immagini. Decine e decine di scatti finalmente rivelati, arrivati da chissà dove a raccontare quelle storie. Quella storia. La vicenda umana e artistica di Vivian Maier – morta poco prima, a 83 anni ‒ era ancora sepolta ma stava già sulla soglia di un nuovo capitolo della storia della fotografia contemporanea.

Vivian Maier, Untitled. Undated

Vivian Maier, Untitled. Undated

Maloof riuscì a contattare diverse famiglie presso cui Maier aveva lavorato, rintracciò suoi oggetti personali e documenti, fece razzia di tutto e mise in piedi un archivio preziosissimo: il mito era già tutto lì, apparecchiato, nella bellezza di quelle foto e nel mistero di quei reperti. Ma soprattutto nel rigore e nel riserbo di una vita così normale, talmente silenziosa da suggerire tutta la contraddizione di una personalità geniale.
Un grande lavoro di ricerca e di restituzione, quello del giovane Maloof; un’intelligente operazione di comunicazione – condotta attraverso il web e i social network – ma anche un business notevole: la battaglia legale per definire la proprietà dei diritti sui beni e le immagini è stata lunga e spinosa. Alla fine, nel maggio del 2016, è arrivato l’accordo tra The Estate of Vivian Maier e The Maloof Collection.

Vivian Maier

Vivian Maier

ICONA POP

Il fenomeno Vivian Maier, esploso in questi ultimi anni, ha contagiato anche l’Italia. Tanto che una mostra, curata da Anne Morin e Alessandra Mauro, ha già fatto il giro di diverse istituzioni museali, tra il 2015 e il 2017: il Man di Nuoro, la Fondazione Forma di Milano, il Museo di Roma in Trastevere e Palazzo Ducale di Genova. Una di quelle mostre “pacchetto” che sono espressione del pop e misura di una certa febbre diffusa. Vivian Maier va in tournée e attira code di curiosi, estimatori, appassionati, stregati dalle sue foto ma anche dalla sua biografia.
La bambinaia solitaria, la dilettante che non cercava il successo e che preferì morire lontana dai riflettori, nascondeva il suo segreto tra decine di scatole accatastate in un garage. Essere un’artista e coltivarne il senso, oltre il mestiere. E oltre quel cappottino mesto e borghese, da cui l’immagine comune, anonima, banale, era volata via. Lasciando il posto, qualche decennio dopo, al clamore della scena: non più spettro ma presenza, non più riflesso nello specchio e ombra sul selciato. L’intensa reporter perduta tra la folla trova oggi la sua platea. Un affare che lei stessa aveva delegato al destino, sfidando il rischio reale della sparizione. Sfida vinta, inequivocabilmente, dalla fotografia.

Helga Marsala

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

Scopri di più