Il primo sguardo antropologico in Puglia. Giuseppe Palumbo a Roma
Museo delle Civiltà ‒ Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, Roma – fino al 7 febbraio 2018. In mostra per la prima volta a Roma le fotografie di Giuseppe Palumbo, intellettuale del sud che agli inizi del Novecento ha osservato la sua terra d’origine attraverso uno sguardo nuovo. Un precursore dell’antropologia.
Tutto sembra riaffiorare come da un vecchio baule ritrovato in soffitta, per molto tempo custodito nei meandri lontani del tempo. Sono le fotografie in bianco e nero di Giuseppe Palumbo (Calimera, 1889 ‒ Lecce, 1959), il fotografo in bicicletta che, anticipando i tempi e il pensiero contemporaneo, ha indagato con fare antropologico la sua terra di origine: la Puglia, il Salento. Una terra in continua evoluzione, che conserva ancora nei labirinti dei ricordi le fatiche, le preghiere, i cammini di uomini e donne che oggi, con questa mostra, rivivono nuovamente, come se la giostra disperata del tempo fosse per un attimo ritornata indietro invertendo il percorso ciclico della vita, così da consentire al visitatore di immergersi in una luce nostalgica per compiere un ultimo giro nelle geografie del passato. Un bianco e nero calibrato da cui riemergono i visi, i corpi e le architetture di una terra lontana a cui tutti siamo debitori dell’oggi.
Palumbo, con la sua macchina fotografica, agli inizi del Novecento scruta i volti rugosi delle vecchie tra le dimore candide delle masserie del Salento, in un silenzio perpetuo, ora non accessibile, quasi incomprensibile, ma che è stato invece l’elemento fondamentale di ieri, attraverso le preghiere bisbigliate, le formule magiche e i pianti di lutto.
Nell’epoca della velocità e del consumo convulso, dove tutto si dissipa in un attimo, le azioni compiute da questi contadini appaiono nuovamente immerse nella storicità del mondo, quasi a insegnare, attraverso la potenza pedagogica della fotografia, una storia recente che in fondo non è lontanissima nel calendario e nella memoria collettiva.
UNO SGUARDO DIFFERENTE
L’iconografia elevata di Palumbo si pone ‒ anticipando la documentazione etnografica successiva che si genera a partire dal secondo dopoguerra italiano, con gli studi e le ricerche di Ernesto de Martino tra la Lucania e la Puglia ‒ come un tassello visivo antecedente, compiuto da un intellettuale del sud che ha saputo guardare nelle fessure più articolate della propria terra con uno sguardo differente, scientifico ma profondamente umano, di un individuo immerso nella propria storia e nella propria geografia, che ha fatto di questi luoghi taccuini visivi di estrema rilevanza.
È stupefacente come attendesse magicamente il momento per cogliere l’attimo, restituendo poi la cronologia degli eventi, la quotidianità dei contadini immersi nel lavoro arduo dei campi, delle raccoglitrici, delle filatrici e delle “chiangimorti”, di cui proprio de Martino, in Morte e pianto rituale del 1958, svilupperà una delle indagini più complete, alte e innovative del pensiero antropologico italiano.
IL TEMPO E L’UOMO
In tutto questo lavoro emerge la concezione del tempo a cui si associano le opere dell’uomo che la storia restituisce; le architetture megalitiche e falliche delle civiltà del neolitico, cristianizzate successivamente in epoca tardo antica e medievale, e che divengono, nella superstizione popolare, siti affollati da figure della negatività; ma Palumbo ne rimanda una immagine chiara, una dimora del riposo, del gioco o del cammino di un mezzadro verso casa.
Il tempo restituisce tutto, riconsegna oggi le cose di ieri, essi si affiancano, si accostano, rivivono di una luce nuova, è la luminaria della festa, di cui questi fotogrammi sono incorniciati. La luce ha una potenza ancestrale, illumina dal buio perpetuo, come ci insegna Gaston Bachelard in La fiamma di una candela, e le immagini di Palumbo ora sono innalzate nelle pagine alte della storia della fotografia: esistono di una nuova luce.
‒ Fabio Petrelli
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