La fotografia e Christian Dior. Intervista a Paolo Roversi
Il volume “Dior Images Paolo Roversi”, presentato dalla celeberrima maison parigina, riunisce una serie di scatti che rendono omaggio al profondo legame tra il fotografo ravennate e l’universo di Christian Dior.
La maison Christian Dior nacque nel 1947 a pochi passi dagli Champs-Élysées, al 30 di Avenue Montagne a Parigi. Il giovane couturier che ha elaborato lo stile Schiaparelli e quello Zazou, proponendo un’eleganza frizzante sinonimo di una felicità ingentilita e di una femminilità ritrovata, morirà esattamente dieci anni dopo il suo debutto. L’azienda tuttavia non sarà destinata a esaurirsi; cambieranno direttori creativi, sarte, mannequin, modelle e una crew sempre attenta nel cercare di mantenere inalterato l’allure che circonda il mito di Dior.
Così, a settant’anni dalla sfilata memorabile, dal New Look, che ha inaugurato una rivoluzione di costume mondiale, la maison francese presenta il volume Dior Images Paolo Roversi, pubblicato da Rizzoli International.
168 pagine di pura bellezza e poesia in cui sono raccolte molte delle fotografie scattate da Paolo Roversi (Ravenna, 1947) in oltre ventisette anni di stretta collaborazione e pubblicate sulle principali riviste di moda quali Vogue e W. A una serie di immagini già note se ne affiancano altre inedite raffiguranti modelle di oggi che indossano i vestiti storici della maison. Una operazione che rende omaggio non solo ai principali direttori artistici che nel tempo si sono succeduti, da Yves Saint Laurent a Marc Bohan, da Gianfranco Ferré a John Galliano, da Raf Simons all’attuale Maria Grazia Chiuri, ma anche al costante lavoro dello stesso Paolo Roversi, che riattualizza tali creazioni attraverso il suo sguardo fotografico unico e contemporaneo.
La prefazione del volume è a cura del filosofo Emanuele Coccia e la monografia, che si configura anche come portfolio fotografico (in quanto racchiude sia fotografie che disegni originali dello stesso Christian Dior), è diretta dalla leggendaria Grace Coddington.
Ma chi è davvero Paolo Roversi? L’abbiamo incontrato alla Galleria Carla Sozzani di Milano durante la settimana della moda.
Puoi raccontarci del progetto?
La maison Christian Dior è nata nel 1947, lo stesso anno in cui sono nato io. Quindi questo libro è ancora più significativo per me, perché racconta anche la mia storia. Insieme facciamo 140 anni [sorride, N.d.R.]. È un volume che racchiude in sé due parti: da un lato tutte le foto che ho fatto in questi anni e che ho pubblicato sui principali giornali di moda; altre immagini sono inedite perché realizzate appositamente. Mi sono stati dati abiti disegnati e realizzati da Christian Dior tra il 1947 al 1957 e li ho fotografati indossati da modelle di oggi. È molto interessante constatare come la moda, quella vera, sia assolutamente fuori dal tempo.
Qual è il tuo rapporto con Dior? Cosa riconosci di tuo nelle scelte visive del brand?
È un rapporto di lunga data. Lavoravo con Tyen per il trucco ed ero un fotografo molto esigente. Più di adesso. Quando ho scoperto la polaroid è iniziato un mondo. Scattavo tantissime fotografie, ma ai clienti, a Dior, davo un’unica fotografia, anche se loro forse avrebbero preferito vederne di più. Con la maison Dior condivido la ricerca dell’eleganza e della bellezza. Christian Dior penso avesse una idea di donna molto simile alla mia; una presenza sognata. Una donna immaginata la cui ispirazione parte sempre da visioni squisitamente poetiche, non quotidiane. Lo stilista è un po’ come un compositore che scrive uno spartito, sta poi al musicista interiorizzare il pentagramma e suonare nel migliore dei modi possibili, e la stessa cosa vale per il fotografo. Un fotografo che lavora con diversi stilisti ogni volta deve entrare nell’aura di quelle creazioni e cercare di interpretarle, non tradendole e non tradendosi.
Le statistiche dicono che entro il 2020 le persone connesse a Internet saranno cinque miliardi. E i social network sono potentissimi mezzi visivi. Perché, in un’era in cui si è così rivolti al web, hai preferito optare per un oggetto concreto come un libro stampato?
In realtà ho un profilo Instagram, che gentilmente mi ha creato Natalia [Vodianova. N.d.R.], ma sono discretamente negato. Inoltre io amo i libri e non mi sono mai allontanato dall’oggetto libro in quanto tale. Sono sempre stato appassionato delle cose di cui posso fare esperienza concreta. Amo la fotografia stampata, quella che tocchi, che odori, che si stropiccia e che ingiallisce. Sono invece contrario alla fotografia evanescente che passa sui monitor e che presto viene dimenticata. Il valore della fotografia è proprio quello di essere un oggetto che ha una sua reale esistenza. A volte mi capita di vedere qualcuno che apre il portafoglio e ha una foto del fidanzato o della fidanzata, e mi emoziono; stessa cosa quando noto una fotografia su un comodino, perché di colpo mi sembra di entrare in contatto con qualcosa di passato.
Una volta, tanti anni fa, sono andato in Cina. Era il mio primo viaggio lì, quindi ero molto curioso; continuavo a leggere libri, a consultare guide, a studiare appunti sulla società cinese, poi un giorno mi sono trovato in un mercato delle pulci a Shanghai e ho trovato una scatola di vecchie fotografie malmesse su una bancarella. Quelle fotografie mi hanno parlato mille volte di più di qualsiasi altra cosa avessi letto sulla Cina.
Come sei approdato alla fotografia?
Il mio rapporto con il mondo della fotografia è stato, come per tantissime altre cose nella mia vita, mosso dal caso. In un viaggio in Spagna, da turista, feci delle fotografie. Poi, tornato a Ravenna, creai in cantina la mia prima camera oscura. Cominciai a sviluppare, a stampare, a mettere le mani nel rivelatore. Poi fu importante un mio incontro a Brisighella a casa del mio amico pittore Mattia Moreni. Moreni era molto amico di Peter Knapp, un importante direttore artistico. Per questo mi invitò a portare una mia scatola di fotografie da mostrargli. Così portai la mia scatola di 18×24 in bianco e nero e Peter cominciò a sparpagliarle. A metterle vicino e poi a muoverle, ad allontanarle e poi rimescolarle. Capii come si dovevano guardare le foto. Non avevo mai visto nessuno far vivere le fotografie in quel modo. Peter le faceva cantare e io rimasi esterrefatto.
Come fai a scegliere una fotografia piuttosto che un’altra?
Peter mi fece capire l’importanza dell’editing, del saper scegliere una foto piuttosto che un’altra. E questo è molto difficile soprattutto quando, come me, scatti tantissimo. Io non butto mai via alcuno scatto. Le immagini sono tutte custodite nel mio archivio. Di solito scelgo quella che ha la forza di raccontare più emozioni. È complicato definire a parole che cos’è la bellezza e anche dirti come faccio a scegliere. La fotografia per me non è una scelta, è piuttosto un richiamo, un canto, come quello di un poeta. Qualcosa che mi attira. Ci sono foto che hanno una vita lunga, altre si spengono come una candela in una scatola dell’archivio e lì restano per anni
Ci sono fotografie a cui sei particolarmente affezionato?
Sono affezionato a molte mie fotografie, ma in fondo le amo tutte. Sono tutte mie figlie, anche se alcune nascono sbagliate, per questo le accetto per come vengono al mondo. Come dicevo, non le butto via. Mai. Accolgo e rispetto tutte le mie fotografie sbagliate. Perché per me tutte le foto sono come goccioline che escono da una sorgente. Alcune dopo due salti di roccia si fermano, altre continuano indisturbate. Altre ancora diventano un piccolo torrente, poi un mare, poi un oceano. Ogni foto ha la sua vita. A me piacciono tutte le goccioline, anche quelle che si fermano subito.
In fondo la fotografia nasce con l’intento di raccontare delle storie e per questo non è così diversa dalla letteratura. Chi sono i tuoi autori di riferimento?
Da giovane leggevo molto, ora meno, ma comunque leggo sempre. Sono un inguaribile romantico e amo la poesia. Ho letto Lagerkvist, Petrarca, Montale, e poi Quasimodo e Ungaretti. Ho avuto una giovinezza molto letteraria e poi anche la Beat Generation mi ha fatto sognare. Preso da questo amore per le lettere, quando Ezra Pound morì mi sentii di andare a Venezia per scattare delle fotografie. Quello è stato l’unico momento della mia vita in cui ho scattato qualcosa di molto vicino alla morte. Poi mai più. Ho amato Leopardi, forse l’autore più caro della mia giovinezza, perché mostra la bellezza della delicatezza e della fragilità.
Nel 2000 è avvenuta una grandissima trasformazione nel campo della fotografia. Dall’analogico si è passati al digitale. Cosa è cambiato per te?
Il mio rapporto con la fotografia analogica è ovviamente fortissimo. Pensa che ho dormito sotto la finestra da cui è stata scattata la prima fotografia della storia, Vista dalla finestra a Le Gras, a Saint-Loup-de-Varennes, a opera di Nicéphore Niépce. È un po’ come se fossi stato nella “capanna di Betlemme” della fotografia. La fotografia digitale non la odio, anzi la utilizzo spesso. Fortunatamente però è arrivata quando ero già maturo e non mi ha deviato nella mia crescita. Una tecnica equivale a un’altra, se si sa quello che si vuol dire. Se invece si è in una fase di crescita e di definizione di una cifra stilistica, il mezzo, lo strumento rischia di comprometterti e deviarti. Quindi i fotografi giovani, o quelli che erano giovani allora, hanno rischiato, in alcuni casi perduto la loro identità.
Dunque, meglio l’analogico?
Secondo me il problema non è tra analogico e digitale, il problema è che non c’è oggi una vera cultura della fotografia; molti fotografi attualmente non sanno cosa sia l’esposizione e la luce. Parlano sono di pixel, e questo è drammatico, perché la fotografia non è un insieme di pixel ma è la modulazione della luce. Io sono stato fortunato, mi sono costruito la mia camera oscura, dove sviluppavo i negativi, e solo in quei momenti capisci realmente cos’è il bianco e cosa il nero, oppure il contrasto. Sono affezionato a una serie di parole che rimandano alla fotografia analogica; pensa all’espressione “superficie sensibile”, che ti dà l’idea di poter toccare e accarezzare la realtà, al fissatore che ti permette di intrappolare il tempo, l’obbiettivo che invece ti mostra quanto sia soggettiva la fotografia. E il rilevatore, perché la fotografia non è una manifestazione della realtà, ma una rivelazione. Mi piace pensare che nella fotografia si veda quello che c’è e quello che non c’è; ma non solo l’apparenza, quel qualcosa in più che non sai descrivere ma che percepisci.
Ma quindi, in definitiva, cos’è una fotografia per te?
L’arte, e in questo caso la fotografia, per citare Umberto Saba, altro non è che una confessione. È uno specchio a due facce; racconta qualcosa del soggetto fotografato, ma al contempo dice molto anche su chi fotografa. Penso quindi che attraverso le mie foto si intraveda molto della mia persona. A dire la verità, si può considerare la fotografia una autobiografia se chi scatta lo fa “onestamente” e sinceramente, mantenendo la propria cifra stilistica pura e coerente. Tante volte ho notato dei fotografi e, quando li ho incontrati, mi hanno trasmesso le medesime sensazioni che avevo provato guardando le loro fotografie. Nel bene e nel male. A molti magari questa esposizione non piace, io non penso che farsi leggere dentro sia qualcosa di pericoloso. Non ho nulla da nascondere ma soprattutto è bello farsi scoprire e dividere con gli altri se stessi. Un poeta napoletano diceva che “noi siamo angeli ma con un’ala sola e possiamo volare soltanto se abbracciati”. La fotografia in definitiva è un po’ questo: è la sintesi tra noi e gli altri.
‒ Maria Vittoria Baravelli
Dior Images: Paolo Roversi
Rizzoli International, New York 2018
Pagg. 168, $ 125
ISBN 9780847862658
www.rizzoliusa.com
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati