Roger Ballen e la forma dell’ombra
Per la prima volta in Italia, uno spazio indipendente dedica una personale all'autore che, da decenni, mette in scena e fotografa la parte invisibile delle nostre esistenze. Ci siamo fatti raccontare dallo stesso Roger Ballen processi e obiettivi di un'operazione che vuole parlare direttamente all'inconscio.
Statunitense di nascita – ma residente a Johannesburg, in Sudafrica, da ormai trent’anni –, Roger Ballen (New York City, 1950) porta nella nuova sede di Le Dictateur (che si fa promotore della rassegna) all’interno di FuturDome a Milano undici fotografie, selezionate dallo stesso autore. Uno spaccato sul mondo interiore di un artista che si dichiara poco interessato alla politica e molto più al modo in cui gli individui vivono se stessi. Parola di Roger Ballen, che abbiamo intervistato in occasione dell’apertura della mostra.
Com’è nata questa mostra?
Tutte le fotografie esposte appartengono al progetto Asylum of the Birds, che conta in totale 91 scatti. Avevo già selezionato le immagini per Federico Pepe [fondatore de Le Dictateur, N. d. R.] per la mostra al Palais de Tokyo di Parigi. Poi mesi fa mi ha detto che gli sarebbe piaciuto esporne una parte anche qui, a Milano, compatibilmente con questo spazio.
E cosa accomuna le immagini selezionate?
La serie si distingue perché in ogni immagine è ritratto almeno un volatile, mentre non sempre sono presenti persone e altri animali. Le fotografie risalgono al 2014, sono state scattate in questo edificio a Johannesburg, l’Asylum.
Tra il 2001 e il 2005, quando stavo lavorando al precedente progetto, Shadow Chamber, alcune delle persone che ho fotografato mi hanno parlato del luogo in cui vivevano prima: era l’Asylum.
Com’è giunto invece all’idea di fotografare gli uccelli?
Il primo scatto che ho realizzato con un volatile risale al 1997-1998. Da lì ho cominciato a sviluppare un interesse nei confronti degli uccelli. Rappresentano il paradiso, la purezza, così li ho portati nello spazio dell’Asylum, in questo mondo psicologico: la loro relazione con il contesto crea parte del senso nelle fotografie.
Oltre a scegliere il set e i soggetti, concepisce in anticipo la scena che vuole fotografare?
Non posso, perché gli elementi al suo interno costituiscono centinaia di relazioni, che non riesco a concettualizzare finché non vengono concretamente alla luce. Molte delle mie immagini comprendono anche il movimento: un occhio si apre, un uccello prende il volo. Ma è imprevedibile, io provo solo a integrarlo nel mio lavoro. Sul set cerco di mantenermi calmo, concentrato e, una volta che ci sono, di fare del mio meglio.
Amo creare forme semplici, chiare: non ci sono vignettature o sfocature, nelle mie fotografie. A essere complesso è il significato, che è molteplice; della stessa opera si può dire che è umoristica o tragica, che è visionaria oppure legata alla società contemporanea.
E cosa le dicono i suoi lavori? Ha dichiarato spesso che le sue fotografie sono un modo per conoscere meglio se stesso.
La vita è un processo in divenire, non si può sempre descriverlo: le parole hanno dei limiti. Anche le fotografie hanno i loro limiti ma comunicano in modo diverso, sono dichiarazioni visive. Forse, potrei dire che le mie fotografie sono specchi, che rispecchiano il proprio essere. Resta però il fatto che il Sé è astratto e complesso. Credo che questo sia un punto importante: imparare che non ci sono risposte a molti dei quesiti più importanti che ci riguardano.
Diciamo allora che si tratta di capire come convivere con se stessi.
Sì, come venire a patti con me stesso, riflettere su di me. Ma, alla fine, chi sono? Chi sei, in ogni caso? A volte penso – e non sono il primo a pensarlo – di essere solo la marionetta di qualcun altro.
Il pensiero di essere manipolati è inquietante.
Sei manipolato dalla tua stessa genetica. Pensi di avere il controllo di te stesso, ma cosa puoi controllare? Hai coscienza di cosa sta succedendo nella tua mente? Da dove vengano le parole che escono dalla tua bocca? Questo è il Sé, ecco perché non puoi rispondere davvero a nessuna delle domande che lo riguardano.
Sei un prodotto della biologia, dell’ambiente, dell’evoluzione. Sappiamo di essere il risultato dell’educazione, della cultura, di un sistema economico. Ma da dove vieni, dove stai andando? Questi sono i veri problemi, oltre la nostra comprensione.
Ho realizzato un video, si chiama Ballenesque ‒ come il titolo del libro pubblicato a settembre 2017 da Thames and Hudson, che riassume la mia intera carriera ‒; sul finale pronuncio quella che credo sia la parola più importante in lingua inglese: niente. Non sai niente, vieni dal niente, diventerai niente. È la cosa più importante da comprendere, con cui venire a patti.
Messa così, è facile capire perché alcune persone trovino le sue immagini angoscianti…
Sì, perché non si sono ancora confrontate con loro stesse: le mie fotografie le portano a guardarsi allo specchio. Le immagini sono inquietanti nel momento in cui le persone non hanno risolto la questione della loro identità.
E ci sono invece spettatori che hanno tratto qualcosa dalle sue opere?
Oh, certo. È per questo che le mie immagini sono diventate famose: non si dimenticano, arrivano al subconscio delle persone e lo trasformano. Succede in continuazione, mi dicono: “Le tue fotografie hanno smosso qualcosa, hanno avuto una profonda influenza su di me. Mi hanno fatto sognare, avere un incubo, ridere, pensare”. E ne sono felice, è quanto di meglio un artista possa sentirsi dire. Molto meglio avere una reazione, piuttosto che passare indifferenti davanti all’opera. Questo è il problema di molta arte contemporanea, oggigiorno: non ha nessun impatto profondo sullo spettatore. La maggior parte tratta di politica, sociologia, cultura. Ma le persone possono benissimo leggere i giornali. Credo piuttosto che l’arte debba puntare alla poesia, alla filosofia, al teatro, alla psicologia: è quello che l’arte dovrebbe fare e non sta facendo. È difficile. È più semplice prendere posizione rispetto a Donald Trump: lo può fare chiunque.
A proposito dei tempi che corrono: qual è il suo rapporto con le nuove tecnologie? Penso all’avvento del digitale in fotografia, lei ha sempre lavorato in analogico.
Circa due anni fa ho ricevuto una fotocamera digitale e ho cominciato a scattare anche con quella, oltre che su pellicola in bianco e nero. Per Ballenesque, Leica mi ha fornito una mirrorless: all’improvviso mi sono trovato a fare foto a colori, quando pensavo di non esserne capace. Posso sempre mutare lo scatto in bianco e nero in un secondo momento, inoltre la qualità dell’immagine è davvero eccellente, in quanto a nitidezza e tonalità è anche migliore di un negativo 6×6.
Poi c’è un terzo aspetto. Per il mio progetto attuale sto lavorando con i ratti; sono veloci, a volte si alzano sulle zampe posteriori o fanno qualche movimento… E proprio in quel momento magari hai finito il rullino. Il fatto che con una fotocamera digitale possa continuare a fotografare è un grande vantaggio. Quindi sto lavorando in digitale sempre di più. Non importa quale camera utilizzo, alla fine è solo uno strumento: non cambia la mia abilità di concettualizzazione.
Però è raro che intervenga in modo sostanziale sulle sue fotografie, a posteriori. Non sarebbe più semplice creare la scena in post-produzione, invece di realizzare un set così elaborato?
In realtà, ho utilizzato Photoshop per un progetto insieme a un altro artista [si tratta della serie No Joke, una collaborazione del 2016 tra Roger Ballen e Asger Carlsen in cui lo scambio tra gli autori è avvenuto esclusivamente online, l’uno potendo intervenire sugli scatti inviati dall’altro, N. d. R.]. È stato creato tutto con il copia-e-incolla. È importante che l’immagine sia reale da un punto di vista psicologico, non che abbia avuto luogo nella realtà: deve avere una certa intensità. Lo spettatore non penserà che è reale, ma il suo subconscio verrà comunque sollecitato dalla fotografia.
Ecco, le mie fotografie sono politiche perché cambiano le persone. È la mia opinione: non c’è speranza di migliorare, se le persone non imparano a integrare l’inconscio nella loro vita. Non c’è speranza senza acquisire coscienza di sé, perché un inconscio che crea problemi porta sempre alle stesse azioni.
È per allontanarsi dalla realtà cosciente che ha inserito segni e disegni, nelle scene?
È stato un processo molto graduale, mi ci sono voluti decenni e decenni per arrivare ad avere le abilità, l’immaginazione e la tecnica per fondere fotografia e disegno. Non si tratta semplicemente di tracciare un disegno sul muro. Devi integrarlo al resto degli elementi, dev’esserci unità. Nei lavori degli Anni Novanta si vedono già piccoli interventi, sono diventati sempre più sofisticati col tempo. E hanno esteso il senso delle mie opere: i disegni non sono persone, ma allo stesso tempo li rappresentano, rimandano alle persone. Sono simboli.
Riguardando alla sua intera carriera artistica, riesce quindi a vederla in modo unitario?
Ognuno di noi ha una parte di sé, il nucleo della propria personalità, che non cambia; come restano sempre uguali le nostre impronte digitali. C’è qualcosa di costante che ci rende quello che siamo. È quello che dà coerenza, unitarietà alla mia arte. Per esempio, io ho anche un PhD in geologia: mi piace la Terra, sin dall’infanzia mi piacevano le rocce, gli uccelli, gli animali. È parte del mio essere.
E cosa invece ha contribuito a evolvere il suo lavoro? La scelta di trasferirsi in Sudafrica, per esempio, quanto ha influito?
I lavori che vanno dal 1982 fino al 2002, all’incirca, hanno ancora elementi documentaristici: ci sono persone sudafricane, in ambienti del Sudafrica. In seguito, le fotografie contengono sempre più disegni, sculture, installazioni: le immagini hanno meno a che fare con il contesto, sempre più con un mondo simbolico e metaforico. Gli scatti riprendono il “mondo Ballenesque”, prima erano ambientati nel mondo delle altre persone.
Forse il Sudafrica l’ha aiutata ad arrivare in contatto diretto con un mondo di archetipi.
Sì, per me il Sudafrica ha, di interessante, la possibilità di vivere e lavorare isolati. Non c’è una grande comunità artistica, tutto quello che faccio in un certo senso viene da Roger Ballen, è stato discusso con Roger Ballen. Le mie opere non vengono dalla visita a quel museo e poi a quella galleria. In realtà il maggior motivo di ispirazione sono le mie stesse fotografie. Le persone guardano al mondo esterno, ma la vera fonte di ispirazione deve venire dal tuo stesso lavoro: devi sentire che stai imparando qualcosa, che ti sta dando qualcosa. Avrei potuto seguire Picasso o Kafka, ma il vero quesito è: posso produrre qualcosa che mi metta alla prova? Creazioni che abbiano significato, che siano speciali per me; altrimenti che senso avrebbe continuare a farlo per 50 anni?
Si tiene quindi a distanza dalle opere degli altri artisti, per restare focalizzato sulle sue?
Oh no, semplicemente non mi sono d’aiuto. Voglio dire, posso andare in un museo e trovare interessante questa e quell’altra opera. E quindi? Tutte le cose interessanti che ho visto non mi dicono cosa fare della mia fotocamera, una volta che l’ho presa in mano.
‒ Caterina Porcellini
Update, 8 aprile 2018: Roger Ballen ci ha informati in anteprima che tornerà a Milano a metà novembre per un’altra mostra, in programma da 10 Corso Como – Galleria Carla Sozzani.
Versione integrale dell’articolo pubblicato su Grandi Mostre #9
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