Identità migranti. Dall’isola di Samos a Torino
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino ‒ fino al 29 maggio 2018. Il progetto dedicato alle dinamiche migratorie e coordinato da Filippo Maggia e Daniele Ferrero raggiunge la fondazione torinese. Terzo capitolo di un racconto collettivo.
“Samos. Happy Summer” annuncia un tipico telo da mare, modello souvenir. Tra una meta turistica e l’altra, fra uliveti e ombrelloni, compare il simbolo di una tenda da campeggio, ricamato sulla spugna: “hotspot” si legge accanto. Nella visione patinata delle amene località turistiche mediterranee, di fatto, la presenza dei rifugiati è percepita sempre più come una scomoda intrusione, un oggetto fuori posto, un punto nero che l’Europa vorrebbe camuffare o far finta di non vedere. Mentre ormai dal 2015 si continua a parlare di centri di accoglienza “al collasso”, i migranti attendono, giorni, mesi e anni, chiusi in accampamenti dove sono costretti ad alloggiare, come prigionieri, in condizioni di vita precarie e spesso disumane.
Ospitata nella project room della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la mostra Today, tomorrow and the day after tomorrow presenta quattro opere realizzate sull’isola di Samos e cerca di dare voce ai rifugiati, di restituirne l’identità oltre i luoghi comuni. Si tratta del terzo capitolo di un progetto di lunga gestazione, dedicato all’emergenza umanitaria dei profughi sulle isole greche lungo la costa turca: avviato nel 2016 dal curatore Filippo Maggia e dal videomaker Daniele Ferrero, in seno a Fondazione Fotografia Modena, è ora condotto in via indipendente insieme a Teresa Serra, coordinatrice del gruppo, e ai fotografi Wissam Andraos, Andrea Luporini, Chiara Corica e Giulia Dongilli.
Dopo Lying in between, Hellas 2016 e Say something to Europe, le prime due fasi di questa indagine mirata a interpretare per immagini (fotografie e video) questa difficile situazione, il lavoro si è concentrato su Samos, con l’intento primario di organizzare e proporre attività e workshop per i migranti costretti nel centro d’accoglienza. “Grazie soprattutto al supporto del gruppo di volontariato indipendente, Samos Volunteers, abbiamo avuto l’opportunità di lavorare a stretto contatto con un’umanità straordinaria, fatta di persone per lo più in fuga da guerre, con le quali abbiamo realizzato un blog a testimonianza e racconto delle attività svolte”, racconta Daniele Ferrero.
UN RACCONTO PER OGGETTI
Nella serie Memories of a camp, composta da sessanta fotografie, i rifugiati si autorappresentano attraverso i loro oggetti, scegliendo quelli “più importanti”. La PlayStation è di Moamal, che ha 7 anni e viene dall’Iraq. Ago, filo e pinzette sono di Hawwa, che ha 42 anni e viene pure dall’Iraq. Il bigliettino su cui è scritto “love”, con accanto due iniziali, è di Abdo, che ha 15 anni e viene dalla Siria. Le tessere da domino sono di Naeem, che ha 25 anni e viene dall’Iran. Fotografati a grandezza naturale su fondo bianco, gli oggetti sembrano fisicamente presenti, esposti come reliquie dentro teche-cornici.
L’operazione non è una novità ed è interessante citare qui altri esempi di raccolte di oggetti appartenenti ai migranti, create allo scopo di testimoniarne la storia o anche solo conservare la memoria del loro passaggio. A Lampedusa da diversi anni esiste il Museo della Migrazione, dove alcune associazioni conservano gli oggetti perduti in mare e ritrovati sulle spiagge dell’isola o sui barconi. In Texas l’artista Susan Harbage Page lavora dal 2007 al progetto Objects from the Borderlands: The U.S.-Mexico Anti-Archive, fotografando e archiviando oggetti persi da coloro che dal Messico attraversano la barriera per raggiungere gli Stati Uniti. Sono storie lontane eppure simili, fatte di confini artificiali che separano ciò che è naturalmente e geograficamente continuo, creando arbitrarie discriminazioni fra chi possiede i documenti giusti e chi no. A tracciare questi movimenti inarrestabili rimangono gli oggetti, col loro potere simbolico e la capacità di trattenere le storie, fatte di lingue e immaginari quotidiani altri rispetto alla realtà occidentale.
AUTORAPPRESENTAZIONE E IMMEDESIMAZIONE
Nel progetto dedicato a Samos, sono gli stessi profughi a scegliere gli oggetti e le immagini attraverso le quali raccontare la propria quotidianità. Nameless è un libricino che contiene oltre novanta immagini scattate dai rifugiati all’interno del campo. Infine un video, realizzato da Maggia e Ferrero in collaborazione con Roberto Rabitti, completa questo percorso di autorappresentazione e immedesimazione, invitando chi guarda a ripercorrere il viaggio dei profughi. Looking forward to seeing you appare sospeso tra il racconto onirico e l’intento documentaristico: la videocamera è una presenza silente all’interno del campo, un occhio inquieto la cui visione dilata lo scorrere del tempo e restituisce il senso dell’attesa, di qualcosa che sta per accadere ma si fa attendere, giorno dopo giorno, nella ripetitività delle azioni che porta al logorio. In sottofondo si ascolta, incessante, il suono delle onde del mare, da cui ogni viaggio ha inizio.
‒ Emanuela Termine
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