Balthasar Burkhard, il fotografo-artista. A Lugano
Dallo sforzo congiunto di enti museali in Germania e Svizzera è nata una grande retrospettiva, che ripercorre l'intera carriera del fotografo originario di Berna come mai prima d'ora.
Cosa rende grande una mostra? Nell’opinione comune, starebbe nel nome dell’artista il maggior richiamo ‒ e quindi la grandezza ‒ di un progetto espositivo. Per gli addetti ai lavori può essere “grande” un’esposizione che denota un notevole sforzo, sia nell’organizzazione sia nell’apparato scientifico che sostiene la mostra. Rientra sicuramente nella seconda categoria Balthasar Burkhard. Dal documento alla fotografia monumentale, in corso al MASI ‒ Museo d’Arte della Svizzera Italiana a Lugano, ultima tappa di un tour che ha coinvolto in precedenza Essen e Winterthur.
C’è però un altro motivo, intrinseco alla stessa poetica di Balthasar Burkhard (Berna, 1944-2010), per cui la mostra può definirsi grande, in senso letterale: il formato monumentale, proprio delle opere mature dell’autore. Attraverso una ponderata selezione di fotografie e scelte allestitive, che mettono le opere in relazione con il vasto spazio del LAC – Lugano Arte e Cultura, i curatori Guido Comis e Diego Stephani propongono una mostra sensibile e intelligente, dove la progressione temporale nella carriera di Burkhard si rispecchia in un’evoluzione tangibile delle stesse immagini, sempre più affrancate dallo status di rappresentazione del reale.
DALLA FOTOGRAFIA ALL’ARTE
Pure nel momento di massima resa “spaziale” della sua fotografia, le immagini di Burkhard restano godibili nei loro valori ‒ composizione e inquadratura, resa del dettaglio o dei valori atmosferici, bilanciamento dei bianchi e neri. Perché il bernese nasce come fotografo e non rinnegherà mai il piacere estetico che può dare uno scatto pensato, ben riuscito. Già nei primi Anni Sessanta, all’interno della serie L’Alpe, possiamo osservare in nuce una sensibilità che ritroveremo – con ben altra potenza – decenni dopo. Che inquadri la testa di una vacca o un’intera metropoli dall’alto, Burkhard mantiene costante la capacità di mostrare, più che il chi o il cosa, il “di cosa è fatto”: l’attenzione alla qualità materica del mondo, che si traduce in un’impeccabile resa formale, è forse l’unico trait d’union di una carriera altrimenti difficilmente inquadrabile.
Già nello stesso decennio, infatti, l’autore figura come reporter ufficiale della Kunsthalle di Berna, sotto la direzione di Harald Szeemann. La vicinanza con il celebre curatore è l’occasione per Burkhard di conoscere l’arte di nomi del calibro di Joseph Beuys, Carl Andre, Bruce Nauman, Alighiero Boetti, Richard Serra.
Delle tendenze concettuali, processuali, post-minimaliste, Burkhard assimila innanzitutto l’inedito rapporto tra l’opera, lo spazio espositivo e l’osservatore. Proprio mentre lavora come documentarista, paradossalmente il fotografo pensa a come liberare la fotografia dal suo status semiotico di indice. Ha così inizio la fase più complessa e articolata della produzione di Burkhard.
INGRANDIMENTI E ALLESTIMENTI “MACRO”
Dagli Anni Settanta, l’autore utilizzerà diversi stratagemmi per affermare la fotografia come forma d’arte autonoma. Tra le serie che ben rappresentano i processi attuati da Burkhard, la più precoce risale agli anni tra i Sessanta e i Settanta: un’opera quale Das Bett (Il letto, frutto della collaborazione con l’amico Markus Raetz) richiama più di un lenzuolo sgualcito illuminato in una stanza semibuia; è l’immagine di un tessuto di grande formato, stampata a sua volta in grande formato su un altro tessuto ‒ la tela ‒ che mantiene la sua morbidezza. Impossibile negare la fisicità del supporto, la “doppia realtà” che è la cifra stessa del mezzo fotografico: è il primo tentativo per Burkhard di far dialogare – non coincidere – l’immagine come rappresentazione e la fotografia come oggetto.
Dieci anni dopo, questo procedimento giunge a maturità. Il riferimento è sia all’installazione firmata da Burkhard nel 1983 alla Kunsthalle di Basilea sia a quella realizzata con Niele Toroni nel 1984, al Musée Rath di Ginevra. Replicati al MASI, in entrambi gli interventi viene ritratta in modo seriale una parte del corpo umano (rispettivamente una gamba e la schiena) e l’immagine viene collegata allo spazio espositivo per affinità, formale e funzionale. Invece di uno scatto di nudo, Burkhard propone oggetti scultorei: così come sostengono il corpo, i busti e gli arti sembrano svolgere la stessa funzione statica una volta divenuti surreali elementi architettonici.
‒ Caterina Porcellini
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #11
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