Rigore postmoderno. Gli scatti di Primož Bizjak a Carrara
CAP ‒ Centro Arti Plastiche, Carrara ‒ fino al 31 ottobre 2018. Gli scatti realizzati da Primož Bizjak nella cave deserte delle Alpi Apuane restituiscono atmosfere postmoderne. Mescolando spunti metafisici e il rigore della scuola di Düsseldorf.
Le fotografie in maxi formato dello sloveno Primož Bizjak (Šempeter pri Gorici, 1976) lo collocano fra gli estimatori del fascino decadente degli ambienti postindustriali: grandi stampe in diasec su plexiglas mostrano reperti di archeologia industriale da cui è scomparso l’uomo, senza luci artificiali né sbavature, in modo che l’immagine non possa mai apparire sgranata, ma è tutta a fuoco e in perfetta definizione fino all’ultimissimo granello di polvere in lontananza. Fanatici dell’oggettività a tutti i costi, sono stati i coniugi Becher a lanciare questa tecnica fotografica associata alle ormai solite tematiche della documentazione della vita postuma degli stabilimenti industriali, anni luce dopo la cessazione di ogni attività.
E anche la scelta del grande formato, in fondo, può essere rimandata al classico paragone fra le arti della pittura e della fotografia, non dimenticando che fu proprio l’avvento della seconda a costringere la prima a una fuga dalla realtà. Chi ha studiato a Venezia non può non avere introiettato la lezione dei vedutisti, a partire da Canaletto, la cui precisione maniacale nell’immortalare ampie vedute del Canal Grande costituisce senza dubbio un precedente illustre dello sloveno, che ha l’ardire di presentare al CAP sette fotografie di cave, dove i fotografi di tutti i tempi e di tutte le scuole si sono già cimentati. E come non menzionare il fotogramma ritrovato dei fratelli Lumière sull’uscita della ferrovia marmifera dal tunnel di Fantiscritti? Da Oliviero Toscani passando per l’allieva di Cartier-Bresson, Martine Frank, fotografi di moda e fotoreporter come Romano Cagnoni hanno regalato o rubato scatti di ogni tipo da queste montagne abusate dal lavoro e trasformate in cantieri a cielo aperto, cattedrali senza porte né finestre che si stagliano nel bianco di contro al mare all’orizzonte, e il verde del grembo immacolato delle Apuane sulle alture della vicina Massa o in Lunigiana. Come dire di più, come aggiungere qualcosa di non detto, non già visto dai conoscitori e dagli esperti, come pretendere di salire sulle spalle dei giganti senza scadere nel ridicolo o nell’eccesso di presunzione?
METAFISICA POST-MODERN
Bizjak tenta l’impresa impossibile di non scadere nella retorica del solito paesaggio di cava, con l’ausilio di una robusta formazione alla Scuola di Düsseldorf, come detto. Rispolvera il banco ottico che permette lunghi tempi di esposizione o di cambiare l’inclinazione e il punto di vista assommandone diverse riprese in successione, sfruttando l’effetto piatto che si dà nella prospettiva a volo d’uccello tenendo rialzato il cavalletto. Tutte sperimentazioni che alimentano il fascino dell’immagine iper-definita creando effetti stranianti.
Se il paesaggio fortemente antropizzato delle Apuane è tema arcinoto e già trattato sotto molti profili, non ultimo quello estetico, in questi ruderi di cave abbandonate non si rinviene traccia del lavoro umano, non operai al lavoro, non pale meccaniche. La desolazione di questi luoghi deserti e misteriosi fa pensare a un paesaggio lunare, per cui non a caso salta fuori ancora una volta la metafisica di de Chirico ma in chiave post-modern, apocalittica e quasi postatomica. Viene da chiedersi dove sia finito tutto il baccano che caratterizza l’industria del marmo, dove sono le grida del ruspista, gli scioperi a oltranza e le tensioni sociali che da sempre gravano nell’aria tanto plumbea quanto densa di fascino e contraddizioni del carrarese. Dove sono finiti tutti, perché non ci sono più?
Se non fosse uno se non il dogma principale di una linea precisa nella fotografia contemporanea, si direbbe che la mostra dimostra ed esemplifica, attraverso un condensato di immagini-manifesto, la posizione ideologica degli ambientalisti attivissimi da queste parti. Secondo i quali l’industria estrattiva dovrebbe cessare per far posto alla flora autoctona davvero bellissima, aspra e colorata delle Alpi Apuane. Fare crescere i fiori e mandare a casa tutti i lavoratori sarebbe una conclusione a dir poco antieconomica, ma anche antisociale e contraria alla civiltà, del marmo.
OLTRE IL SUBLIME
In ogni caso, ci rifiuteremo di concludere invocando ancora il sentimento del sublime che, kantianamente, coglie l’uomo di fronte alla visione della grandezza e della potenza smisurate della natura selvaggia e incommensurabile, di fronte alla quale avverte il senso della propria miseria ma anche il desiderio di riscatto quasi lanciando una sfida a quella stessa natura ostile, estranea e indomabile. Né ci avventureremo in un rimando al senso di noia mortale che Hegel provava di fronte alla natura selvaggia rispetto alla quale l’idealista sempre predilesse la dolcezza del paesaggio coltivato, ove si rispecchia e si coglie lo spirito in azione, cioè la storia: il senso di precarietà del nostro secolo non permette che continuiamo a crederci dèi, e tanto basti per rispondere alla tracotanza hegeliana e/o del modernismo oltranzista. Se la cava è quel paesaggio antropico o antropizzato elevato all’ennesima potenza, il ritratto di una cava in stato di abbandono, nel silenzio più tombale, o è un manifesto dell’ambientalismo o una citazione delle atmosfere sinistre nella serie delle piazze italiane del nostro Giorgio de Chirico, o tutte e due.
‒ Francesca Alix Nicoli
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