La grande fotografia di paesaggio. Intervista con Mimmo Jodice
1984. Insieme a Gianni Leone ed Enzo Velati, Luigi Ghirri è il regista di una mostra e di un libro dal titolo “Viaggio in Italia”. Trecento fotografie raccontano in maniera inedita il nostro Paese grazie agli scatti di una ventina di autori, da Ghirri stesso a Mimmo Jodice, da Gabriele Basilico a Vittore Fossati. A oltre trent’anni di distanza, vi abbiamo proposto sette interviste ad altrettanti protagonisti di quella storia. Iniziando da Giovanni Chiaramonte e proseguendo, su ogni numero di Artribune Magazine, con Guido Guidi, Vincenzo Castella, Mario Cresci e Olivo Barbieri. Una ricognizione che chiudiamo con questa doppia intervista a Mimmo Jodice e Vittore Fossati.
Mimmo Jodice (Napoli, 1934) è uno dei fotografi italiani più conosciuti e apprezzati in ambito internazionale. Le sue foto sono state esposte persino al Louvre. Nel 1984, a cinquant’anni, già protagonista della scena fotografica, è invitato da Ghirri a partecipare a Viaggio in Italia.
Come inizia la tua storia con la fotografia?
Comincia all’inizio degli Anni Sessanta e nasce dalla mia forte passione per l’arte, quella classica, ma anche quella contemporanea. In quegli anni iniziavo a essere influenzato da alcune correnti artistiche che esaltavano la possibilità di alterare la realtà in una nuova dimensione surreale e metafisica. Ero povero ma ho cominciato a collezionare riviste e pubblicazioni di fotografia d’arte. In quel periodo la cultura fotografica era quasi soltanto in bianco e nero. Ricordo di essere rimasto fortemente impressionato da Bill Brandt, forse il primo autore dal quale sono stato influenzato.
E il tuo rapporto con le avanguardie? Sei stato uno dei protagonisti, in tal senso, del dibattito culturale napoletano di quegli anni e hai preso parte alle mostre dello Studio Morra di Lucio Amelio.
Sono stati anni straordinari. Tutta la conoscenza riferita all’arte classica e moderna veniva messa in discussione attraverso nuove forme espressive.
Avevo la fortuna di vivere in una zona della città ricca di presenze e di eventi artistici incredibili. Vicino al mio studio, situato in un palazzo di via Chiaia, a ridosso di piazza dei Martiri, che era il centro gravitazionale della scena artistica napoletana, si trovavano le gallerie di Dina Carola, Lucio Amelio, Pasquale Trisorio, Lia Rumma e Peppe Morra. Frequentavo tutte le inaugurazioni, prima da spettatore e poi da fotografo. Con gli artisti c’era una collaborazione continua, specialmente durante le loro performance, in cui l’unico documento che testimoniava l’evento erano le mie foto. Così per Il Viaggio di Ulisse con Jannis Kounellis, che è diventata un’opera esposta e venduta; Vito Acconci ha fatto una performance nel mio studio, Progetto per un Probabile Suicidio: è entrato, si è spogliato, si è scritto su tutto il corpo con un pennarello. Il giorno dopo è tornato e ha lavorato sulle mie foto riscrivendole con un pastello a cera bianco. Un lavoro a quattro mani straordinario, che conservo come testimonianza preziosa. In quegli anni gli artisti creavano in galleria, l’inaugurazione era spesso l’evento nel quale si generava il fatto artistico. Assistere a questi happening e/o performance d’arte concettuale e d’avanguardia era, alle volte, sconcertante perché ribaltava completamente qualsiasi punto di vista, demolendo le antiche certezze e allargando i limiti del proprio orizzonte creativo.
Il tuo rapporto con Andy Warhol?
Andy Warhol è stato un artista importante per Napoli, come Beuys, Acconci, Kosuth, Kounellis, Rauschenberg e tanti altri che venivano in città non solo a esporre, ma anche per fare arte, usando la tensione culturale della città e l’impegno degli Anni Sessanta come forza motrice. Alle inaugurazioni c’erano le opere, ma soprattutto l’esperienza concreta di questi artisti. Potevi dialogare con loro di arte e di vita: sono stati momenti straordinari e forse irripetibili. Ti racconto un aneddoto: una mattina viene in studio Joseph Beuys per vedere i miei lavori e si appassiona ad alcune fotografie realizzate a Gibellina. Di lì a breve mi sono ritrovato con lui in Sicilia e abbiamo camminato e lavorato assieme nella città abbandonata. Una sinergia che è poi diventata un libro.
In quegli anni sei stato anche un fotografo politico, di lavoro, come ci ha mostrato recentemente una tua mostra bolognese. Cosa ha significato per te quella stagione?
In quegli anni, da un lato frequentavo le avanguardie artistiche, dall’altro avevo un’esperienza personale e quotidiana delle necessità e delle difficoltà della comunità: l’agenda sociale presentava infinite urgenze per le tante ingiustizie e le tante sofferenze. La parte sensibile e impegnata non era disposta ad accettare questa situazione, così in me nasce il bisogno di approfondimento e partecipazione. Volevo far conoscere la sofferenza, il malessere che ci circondava. Erano gli anni intorno al 1968, molti di noi erano impegnati politicamente e socialmente, ho partecipato alle lotte, alle manifestazioni, agli eventi politici legati a Napoli. Tutti noi speravamo e credevamo di dare un contributo perché avvenisse un grande cambiamento. Ma poi questo movimento è fallito e ho avuto l’impressione che tutto il nostro impegno politico e tutte le nostre battaglie fossero state inutili. A quel punto ho capito che per me una stagione si stava chiudendo.
Nel 1980 pubblichi Vedute di Napoli, che segna una svolta nel tuo linguaggio e contribuisce a fornire una nuova visione del paesaggio urbano e dell’architettura.
La mia affezione verso la politica e la realtà si era spenta e quindi ho deciso di iniziare un lavoro su Napoli, che pur non avendo nessun riferimento al sociale, alle vicende quotidiane, mostra una città vuota, irreale, manca l’uomo ma non la scena. Vedute di Napoli è il mio primo progetto legato alle città e all’applicazione della metafisica e del surrealismo all’idea assoluta di città.
Nel 1985 inizi un’approfondita ricerca sul mito del Mediterraneo. I risultati sono il libro pubblicato da Aperture (New York) e la mostra al Philadelphia Museum of Art. Vogliamo parlare del tuo rapporto con il mondo classico, con la classicità?
Devo chiarire un aspetto importante che attraversa tutto il mio lavoro e la mia ricerca: non ho mai fatto una bella fotografia. Cioè non sono mai stato interessato a una fotografia o a un’arte compiacente e indulgente, ho lavorato sempre su tematiche che mi appassionavano e che sentivo come urgenti. Mi sentivo coinvolto dalla classicità semplicemente perché sentivo quelle pietre e quei luoghi come “miei”. Dal mio punto di vista non stavo fotografando il mondo antico, ma lo stavo vivendo. Ho incominciato a ritrovarmi nella storia, diciamo che sono tornato indietro di 2.000 anni non per fotografare, ma per vivere queste presenze in prima persona, con i miei occhi. A ripensarci adesso, Mediterraneo è stato proprio un viaggio nel tempo, la mia rappresentazione di tutto quello che la storia e la cultura del bacino del Mediterraneo significava per me.
Passando al tema principale della nostra conversazione: quando e come sei entrato in contatto con Luigi Ghirri?
Questo mio lavoro sulla fotografia concettuale, intenta a creare delle dimensioni altre rispetto alla realtà, mi ha presto messo in contatto con i pochi autori italiani che stavano facendo ricerche simili. Uno di questi era Luigi Ghirri. Con Ghirri ci siamo conosciuti in una delle tante occasioni di lavoro, le cosiddette committenze fotografiche, frequenti nei primi Anni Ottanta. A quel tempo iniziava a venir fuori la fotografia a colori e il suo lavoro mi piaceva particolarmente, aveva una dimensione poetica e surreale: le case vuote, i paesaggi silenziosi, dimensioni di smarrimento che animavano le sue foto, e lui si sentiva altrettanto coinvolto dal mio lavoro. Questo ci ha legato; così è stato anche con altri autori quali Mario Cresci in Lucania o Gabriele Basilico a Milano. Eravamo in pochi e ci scambiavamo idee, facevamo molte volte delle mostre insieme, era naturale che ne nascesse un movimento.
Con quali criteri avete scelto le tue foto per Viaggio in Italia?
Come detto, nel 1980 avevo pubblicato Vedute di Napoli. In quelle foto la città appare vuota, ma pregna di presenze/assenze. Mi sono ispirato alla pittura: da Sironi a Magritte, non c’è l’uomo ma tutto parla della sua disperazione e del suo abbandono. Credo che quando Luigi ha visto questo lavoro, mi abbia sentito particolarmente vicino al suo sguardo e alla sua visione.
Quanto quella stagione è stata importante per il tuo cammino successivo?
La ricerca e il lavoro iniziato nel 1980 continuano ancora oggi. Tutti i progetti fatti negli anni seguenti, fino a oggi, hanno questo profondo senso di distacco, questo bisogno di allontanarsi dalla realtà, di creare qualcosa di irreale e metafisico. Così in Eden, Nuove vedute di Napoli, Naples: Une Archéologie Future, Gibellina, Suor Orsola per giungere sino ad Attesa del 2016.
Un lavoro fondamentale.
Attesa è il lavoro che più fortemente mi appartiene e che meglio sintetizza il senso di tutta la mia ricerca artistica. Questa dimensione di smarrimento e di desiderio verso le tante cose sperate, alla ricerca di un mondo migliore, speranze che si sono poi vanificate, ha dato vita a una dimensione surreale, dove le assenze contano più delle presenze, i vuoti più dei pieni, i silenzi e i tempi morti più delle “istantanee”. L’attesa è un tema che non mi ha mai abbandonato e non mi abbandona ancora adesso Quando posso, continuo a lavorare su questo tema, come è accaduto in occasione della mia retrospettiva al Museo Madre nel 2016. Del resto, il tema dell’attesa è sempre stato dentro di me e forse potrei affermare che è la natura stessa della mia fotografia.
‒ Angela Madesani
Giovanni Chiaramonte – Artribune Magazine #40
Guido Guidi – Artribune Magazine #41
Vincenzo Castella – Artribune Magazine #42
Mario Cresci – Artribune Magazine #43
Olivo Barbieri – Artribune Magazine #44
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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