Willy Ronis, il fotografo comunista
Donate dall’autore allo Stato francese, sbarcano a Venezia 120 stampe vintage provenienti dal fondo Willy Ronis della Médiathèque de l'architecture et du patrimoine. Una significativa selezione di immagini, che permette di scoprire finalmente uno dei più importanti ‒ e di certo il più politico ‒ tra i fotografi francesi del Novecento.
Percorrendo le ampie sale della Casa dei Tre Oci, in occasione della più grande mostra italiana mai dedicata al fotografo francese Willy Ronis (Parigi, 1910-2009), il primo dato critico che emerge suona come un ossimoro: un autore è in grado di manifestare la propria poetica anche per esclusione, in assenza. Almeno nel caso di Ronis, ciò che non fotografa è indicativo quanto la scelta dei soggetti stessi. Di padroni e dirigenti, di ricchi e benestanti non vi è traccia; il mondo che si dipana negli scatti esposti a Venezia è fatto di piccoli gesti e gente “piccola”, che suo malgrado si trova coinvolta in eventi della massima portata storica e non per questo si lascia scoraggiare.
I COMPAGNI DI WILLY RONIS
A dispetto della vita quasi centenaria del fotografo, quello di Ronis è un mondo che delle “magnifiche sorti e progressive” ha conosciuto quasi soltanto le conseguenze meno piacevoli, i “danni collaterali”: pur senza giungere al pessimismo leopardiano, quello dei soggetti in mostra è un ambiente vicino ‒ per immutabilità ‒ all’habitat della ginestra cui è intitolata la poesia, che da quel poco che le è stato dato riesce a trarre le condizioni per vivere, e persino un profumo inebriante. Intendiamoci, come non è possibile fare di un arbusto di campo una pianta da concorso di bellezza, così la gente di Ronis non è idealizzata: da un autore dichiaratamente comunista è assurdo aspettarsi una visione pietista, perché in questa dimensione terrena non sono affatto “beati gli ultimi”.
Diversamente che nei caffè parigini prediletti da Doisneau o fra le strade nei notturni della Ville Lumière di Brässai, per Ronis non è chic appartenere al popolino, alla classe operaia o alla piccola borghesia. Anzi, è una lotta; per sopravvivere alla Seconda Guerra Mondiale come per veder rispettati i propri diritti in fabbrica. Proprio questo suo carattere di aperto conflitto ‒ rispetto a un oppositore che Ronis rifiuta persino di inquadrare ‒ contribuisce a quella sensazione che nulla cambi, per una certa parte della popolazione, che siano gli Anni Trenta, Cinquanta oppure Ottanta del Novecento.
La strada è il luogo, la comunità che vi si riunisce il soggetto; la volontà di vivere dignitosamente con le proprie risorse, nel bene e nel male, è la qualità (che, da morale, si fa estetica) meritevole di essere raccontata, decennio dopo decennio.
PAROLA AL CURATORE MATTHIEU RIVALLIN
Ebreo, comunista e francese; fotografo, ma anche appassionato divulgatore e stimato insegnante: nella nostra intervista, Matthieu Rivallin disegna un ritratto articolato di Willy Ronis, la cui generosa personalità si rivela fondamentale a formare un’intera generazione di fotografi francesi.
In mostra si percepisce un rapporto molto profondo tra lei e l’opera di Willy Ronis.
Oltre a essere responsabile dei fondi fotografici del XX secolo alla Médiathèque, esiste una qualche affinità, anche personale, che lei sente con il fotografo?
Ho conosciuto Ronis solo al termine della sua vita, ma ho trascorso ore e giorni a guardare, classificare e ordinare le sue fotografie: alla fine, attraverso l’archivio si forma un legame e il fotografo diventa “di famiglia”. A volte ci si fa un’idea della persona che era; in alcuni casi si pensa fosse terribile, ma ritengo che Ronis fosse formidabile, dotato di una personalità molto generosa: nel corso di una giornata poteva ricevere tre, quattro visite e dimostrarsi sempre disponibile al confronto.
Perché tutti volevano incontrare Ronis?
In occasione dell’esposizione Five French Photographers al MoMA [allestita a New York tra il dicembre 1951 e il febbraio 1952, N.d.R.], l’opera di Ronis venne accostata a quella di Izis, Doisneau, Brässai e Cartier-Bresson, facendo dell’autore una delle figure tutelari della fotografia in Francia nel XX secolo. Tutti gli altri sono scomparsi tra la fine del Novecento e i primi Anni Zero: ultimo artista ancora vivente, Ronis è rimasto nell’ultimo periodo a rappresentare una generazione di grandi fotografi.
Mettendo Ronis a confronto con gli autori citati, possiamo definirlo come il più politicizzato? Sembra che la sua visione politica permei tutta la sua opera.
Sì, Ronis aveva un credo politico molto forte, dei cinque fotografi è l’esponente più “a sinistra”. A differenza degli altri autori, era comunista. Per quanto difficile fosse far convivere queste personalità, Ronis era al contempo ebreo, comunista e francese.
Era figlio di ebrei emigrati a Parigi dall’Europa dell’Est, ma non si percepisce un grande interesse per il tema religioso.
Ci sono alcuni scatti a tema realizzati da Ronis, ad esempio all’inaugurazione del Memoriale della Shoah a Parigi. Ma, in effetti, Ronis era innanzitutto comunista: ha fatto del comunismo la sua religione.
Una trentina delle fotografie in mostra sono accompagnate dagli appunti dell’autore. Si attribuisce così notevole importanza al testo che accompagna l’immagine. Quando gli scatti venivano invece pubblicati sulle riviste, Ronis disponeva della stessa libertà per “raccontarsi”? Oppure questo è un aspetto che emerge solo con le retrospettive?
In realtà, questa mostra ai Tre Oci è la prima in assoluto in cui possiamo sottolineare il peculiare rapporto tra immagine e parola scritta nella produzione dell’artista. A favorirlo è il lavoro che si sta conducendo sul suo archivio, in vista della pubblicazione di oltre 590 immagini di Ronis e relativi testi nei sei album fotografici che pubblicherà la casa editrice Flammarion entro la fine di quest’anno. Molti scritti di Ronis, fra l’altro, sono successivi alla sua produzione fotografica: l’autore vi si dedicò dopo il 2002, quando ‒ costretto a muoversi con l’ausilio di stampelle ‒ non era più in grado di maneggiare la camera e scattare con la consueta libertà. Nascono così due libri, Ce jour-là e Derrière l’objectif [rispettivamente del 2006 e del 2010, N.d.R.], in cui Ronis seleziona, analizza e racconta una serie di sue fotografie.
Nella sezione di inediti scattati a Venezia, in un appunto Ronis scrive che era impegnato in un workshop organizzato a Palazzo Fortuny. È possibile che l’esperienza didattica, la volontà di insegnare fotografia abbia favorito l’attività di scrittura? Leggendo le note, pare che l’autore si rivolga ad altri fotografi.
Ha pienamente ragione nel fare questa ipotesi. Già a partire dal 1950, con la comparsa di una nuova generazione di fotografi, Ronis inizia a scrivere contributi per riviste destinate agli amatori. È una fetta di mercato davvero importante, in Francia, e l’autore vi si rivolge spiegando la fotografia in tutta la sua artigianalità. In una delle vetrine in mostra è esposto per esempio un libretto intitolato L’arte di fare fotografia, in cui appunto il professionista si rivolge al dilettante dando consigli pratici.
L’insegnamento dunque fu una vera e propria attività per Ronis?
Dagli Anni Sessanta Ronis si dedica all’insegnamento, tenendo dei corsi. Nel decennio successivo, la didattica diventa la sola attività professionale del fotografo. Insegna all’École nationale Louis-Lumière di Parigi e, in seguito, anche a Marsiglia e Avignone. Quest’attività può spiegare la crescente popolarità di Ronis stesso: un numero importante di futuri autori ha seguito i suoi insegnamenti, l’ha conosciuto e ha lavorato con lui, quindi, una volta raggiunta la maturità artistica e lavorativa, sono gli stessi allievi a diffondere il suo nome e la sua opera. Per esempio, quando nel 1981 Ronis viene invitato a Villa Medici a Roma per un breve soggiorno, a chiamarlo è il primo fotografo cui è stata assegnata una residenza all’Accademia di Francia, Bernard Richebé.
‒ Caterina Porcellini
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #12
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