Murat Yazar e le ombre del Kurdistan
Raccontare il Kurdistan attraverso la fotografia. È questo l’obiettivo di “Ombre del Kurdistan”, il progetto di Murat Yazar, che abbiamo intervistato.
Negli ultimi anni, e precisamente dal 2014, si è parlato molto dei curdi e della loro resistenza di fronte alla barbarie dell’estremismo religioso. Abbiamo ascoltato le storie delle loro eroiche donne nelle battaglie e sul campo del conflitto e di come quindi tutta l’attenzione sia stata focalizzata sul campo politico e militare. Mentre riguardo alla società curda, purtroppo, sono arrivate poche notizie, ancor meno quelle relative al campo artistico e culturale.
Durante questi stessi anni, Murat Yazar (1978) fotografo curdo nato nella provincia di Urfa in Turchia, collaboratore del National Geographic e del New York Times, ha lavorato a un progetto fotografico per raccontare la società curda dal suo punto di vista, personale e artistico, per portare così il grande pubblico a scoprire la società curda vissuta nell’ombra dalla fine della Prima Guerra Mondiale e quindi ormai da più di un secolo.
Il progetto si chiama infatti Ombre del Kurdistan e, attraverso le lenti della sua camera fotografica, Murat ha catturato momenti poetici e d’effetto immortalando la natura e l’uomo, illustrando anche le relazioni quotidiane, pane della loro vita.
Dice Murat: “Ho iniziato a lavorare a questo progetto nel 2011 durante dei viaggi in Anatolia e nel Kurdistan turco. La divisione del Kurdistan ha imposto dei confini tra un popolo che viveva insieme, separando intere famiglie e mettendo i curdi tra le minoranze nei quattro differenti Paesi (Turchia, Siria, Iraq e Iran) in cui sono stati divisi, mischiandoli a lingue e culture diverse. Allora, l’idea del mio progetto è unire queste quattro parti del Kurdistan in un progetto fotografico di quattro volumi: Kurdistan turco, iracheno, iraniano e siriano”.
I CURDI E L’OMBRA
Il nome scelto per il progetto, Ombre del Kurdistan, secondo Murat, rappresenta alla perfezione la situazione curda: “Guardo alla mia infanzia e ci penso. Sono nato in un piccolo paese parlando solo il curdo, ma quando ho iniziato ad andare in una scuola/collegio mi fu vietato di parlare curdo, e se si veniva sorpresi a parlare la propria lingua, si veniva puniti. La lingua e la cultura curda erano totalmente proibite, non solo a scuola, ma anche nella vita di tutti i giorni”. Murat infatti ha studiato in un collegio della città di Urfa per otto anni, lontano dal suo paese di nascita e dalla famiglia, perché in Turchia, nei paesi di piccole dimensioni e con pochi abitanti (come quello in cui è nato), non vi erano scuole e quindi il governo offriva alle famiglie la possibilità di mandare i figli in collegio alle elementari e alle medie. Ma i collegi erano solo nelle città grandi e quindi i bambini rimanevano soli e lontani dalle famiglie, seguendo una disciplina severa che vietava di usare le lingue delle minoranze, per parlare invece esclusivamente la lingua turca.
Continua a raccontare Murat: “Da adulto, fotografando questa situazione contraddittoria, mi sono reso conto che noi curdi siamo come l’ombra, esistiamo, ma non possiamo comparire nella luce. Con la luce vediamo e con la luce sei visibile, i colori della tua vita sono visibili, mentre nell’ombra esisti, ma non sei allo scoperto, sei nel margine. Ecco, i curdi non possono né vivere la propria cultura, né utilizzare la propria lingua né esprimere le proprie emozioni. E da qui nasce il nome del progetto”.
La luce e la poesia non mancano nelle fotografie di Murat, sia quando cattura la natura sia nei volti delle persone che ritrae di profilo: “Per me la fotografia è proprio l’espressione greca che la definisce, e cioè scrittura di luce. Quindi, quando scrivi devi scegliere bene la luce con cui scrivere”. E alla nostra domanda sulla poesia presente nelle sue foto, se è la natura a offrirla oppure l’occhio della sua camera fotografica, Murat risponde ridendo. “Credo che siano tutte e due, anche se per me la natura è poetica di per sé. In questo progetto cerco di mostrare non solo la natura, ma anche la vita sociale, culturale e politica delle persone, ecco perché vediamo la natura, ma nello stesso tempo la vita quotidiana come la festa, il funerale o il lavoro; c’è il cittadino, il contadino e il nomade. In qualche modo cerco di documentare tutto questo in modo artistico”.
A oggi Murat ha completato la prima parte del progetto, quella sul Kurdistan turco, dove ha deciso di fotografare i suoi soggetti tutti in bianco e nero, e su questa scelta dice: “Per me, il bianco e il nero è più poetico e diretto perché con le foto a colori l’occhio è maggiormente impegnato ad analizzare e osservare l’immagine. Con il bianco e il nero, invece, osservare una foto è più rilassante, ricevere il messaggio è più immediato. Ovviamente in altri progetti fotografo anche a colori”.
FUORI DALL’EDEN
Durante il periodo in cui Murat stava lavorando al suo progetto, ha incontrato lo scrittore statunitense Paul Salopek. Insieme hanno attraversato a piedi l’Anatolia e il Kurdistan (sud-est della Turchia) fino alla Repubblica di Georgia, camminando per circa 1200 km in un viaggio durato 55 giorni. Su questa esperienza Murat racconta: “Nell’autunno del 2014, Salopek è arrivato all’ONG di Urfa in cui lavoravo e durante la sua visita ho capito che cercava un collaboratore locale che lo accompagnasse nel suo viaggio”. E aggiunge: “Ci siamo così conosciuti e mi ha illustrato il progetto che stava seguendo, “Out of eden”, un viaggio a piedi per il mondo per raccontare le storie dei popoli e dei luoghi. Quindi mi ha chiesto se ero interessato a questo viaggio attraverso il Kurdistan fino alla Georgia, da compiere rigorosamente a piedi con la compagnia di un solo mulo che ci aiutasse a trasportare l’attrezzatura. All’inizio ho pensato “ma questo è pazzo”, poi riflettendo mi sono detto “perché no? Posso provare!””.
Salopek pubblica il resoconto dei suoi viaggi sul National Geographic nella rubrica dedicata a Out of eden walk, un progetto iniziato in Etiopia nel 2013 con l’idea di concludersi in Cile, nella Terra dei Fuochi. L’obiettivo del progetto è ripercorrere a piedi le tracce dei primi uomini nella loro migrazione dall’Africa fino alle Americhe. Dopo questo viaggio Murat ha seguito un’altra avventura, questa volta però verso l’ovest: “Nello stesso periodo, 2014-2015, è iniziato l’esodo dei profughi (siriani, iracheni, afghani, ecc.) che, partendo dalla Turchia e della Grecia, si dirigevano in Europa tramite la rotta balcanica. Insieme a due amici fotografi ho iniziato a viaggiare tra Grecia, Macedonia, Serbia e Croazia appositamente per raccontare quelle storie. In seguito, sono tornato a guardare all’Oriente, spostandomi in Iran, Iraq e nel Caucaso, raggiungendo l’Armenia, l’Azerbaigian e la Georgia”.
Per Murat fotografare è documentare la magia del quotidiano: “Nella vita ci sono dei momenti magici e stupendi, allora hai voglia di immortalarli e di fermare il tempo, cogliendo l’attimo come lo vedono i tuoi occhi, trasformando quei momenti in arte”. Murat però non nasconde le difficoltà sociali che ha dovuto affrontare nel 2006, all’inizio della sua carriera e dopo la laurea conseguita in turismo: “Purtroppo in queste zone, Turchia e Kurdistan, se torni a casa e dici alla famiglia che hai deciso di studiare fotografia, ti risponderanno: “ma sei matto?”. Erano molto perplessi riguardo alla mia decisione e hanno cambiato idea solo dopo qualche anno”.
Murat oggi vive a Roma e non cela il suo stupore per la bellezza della città: “Roma è una città piena di storia, è così affascinante; architettura e arte dominano la scena panoramica e tutto questo nel cuore dell’Europa”.
Ombre del Kurdistan è stato presentato in molte città, Parigi, Roma, Sorrento, e nell’ottobre di questo anno anche in Canada, in Québec. Qui Murat ha ricevuto il premio Photo Giornalism nell’ambito dello Zoom Photo Festival e ora si sta dedicando alla pubblicazione del primo volume di Ombre del Kurdistan, che andrà in stampa nei primi mesi del 2019.
‒ Ghiath Rammo
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