Storie di resilienza. Gli scatti di Marco Gualazzini a Milano
Forma Meravigli, Milano ‒ fino al 24 marzo 2019. Fotoreportage come testimonianza civile di un’umanità borderline, che lotta in silenzio.
La prima impressione su Resilient – mostra a cura di Alessandra Mauro – è quella di un affresco di storia contemporanea in cui il medium adoperato, la fotografia di reportage, assurge a sintesi di un arduo lavoro di ricerca condotto in Africa nel decennio 2009-2018 da Marco Gualazzini (Parma, 1976). Il fotoreporter, con all’attivo varie collaborazioni e pubblicazioni per autorevoli testate nazionali e internazionali, tra cui CNN, Al-Jazeera, New York Times e M (Le Monde), prova a narrare con il suo obiettivo storie di una quotidianità fragile e tormentata, vissuta in condizioni estreme nella parte meno fortunata del pianeta.
GLI SCATTI
Circa quaranta immagini di innegabile pregio compositivo sembrano indirizzare al visitatore e alla sua coscienza uno sguardo di rimprovero attraverso il dolore di chi ha perso tutto, come Maria Hassan, che si definisce “donna senza passato” – la ragazza, poco più che ventenne, vive sola in Ciad dopo essere riuscita a sottrarsi a un gruppo di jihadisti che l’aveva rapita dal suo villaggio natale e costretta a un matrimonio forzato. Si susseguono storie di altre vittime della violenza e della paura, dello sfruttamento, dell’emergenza alimentare, dalla Somalia alla Repubblica Democratica del Congo, Paese in cui ogni anno vengono stuprate circa 15mila donne. Lo stupro, spesso impunito e praticato come arma di guerra, il suo legame con l’altra piaga, la crescente diffusione dell’HIV, e ancora, il rapporto controverso tra religione e credenze popolari, le diseguaglianze, figurano tra i temi documentati, il cui filo conduttore è la resilienza, ovvero la capacità di reagire in modo positivo agli eventi traumatici. Direttamente dall’inferno storie di resilienza, di resistenza, ma anche di speranza. Emblematici gli scatti con bambini intenti a giocare fra i relitti: malgrado tutto, la loro voglia di vivere non è stata mutilata, è quasi rivoluzionaria.
FOTOGRAFARE DA VICINO
L’autore, come ha sottolineato Gianluigi Colin nel saggio critico all’interno del bel libro omonimo (edito da Contrasto) a corredo della mostra, “sceglie di fotografare da vicino: ma il suo occhio, invece che sulla contingenza della cronaca preferisce fermarsi oltre: oltre il corpo maciullato dalle bombe o quello martoriato dai machete e dalle raffiche dei kalašnikov. Marco, invece della spettacolarizzazione (sì, c’è anche un’estetica della morte che i giornali amano molto) preferisce narrare storie, preferisce una fotografia che faccia comprendere quello che accade invece di quella del voyeurismo, di una certa pornografia dell’orrore. Sceglie una fotografia sospesa nel tempo e carica di rispetto per la dignità dell’uomo: l’idea di un racconto in cui emerga una lotta silenziosa, sofferta ma non per questo non attiva”.
‒ Domenico Carelli
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