Medardo Rosso, l’ossessione luminosa. A Firenze
Chiude il 28 marzo la mostra dedicata dal Museo Novecento di Firenze al genio di Medardo Rosso. Una mostra che è stata occasione per tornare a riflettere sul secondo amore dell’artista: dopo la scultura, la fotografia. Anzi, insieme. Non dimenticando nemmeno la pittura. Un universo complesso, dalla forte natura intellettuale, esplorato nel segno della luce.
Non poteva che esserne sedotto, fatalmente, fino a perdersi nell’aura di quella splendida diavoleria. Medardo Rosso (Torino, 1858 – Milano, 1928), tra gli artisti che segnarono una cesura radicale nella storia della scultura del Novecento, amò profondamente anche la fotografia. La studiò, la esplorò tecnicamente e concettualmente, la praticò e ne fece un’alleata. Sentendo ancora quel sentimento di stupore e di euforia che la meravigliosa “scrittura di luce” aveva diffuso dal Vecchio al Nuovo Continente, a partire dalla prima metà del XIX secolo: un successo inarrestabile, esploso in mano ai due pionieri riconosciuti, Louis Daguerre e William Henry Fox Talbot, preceduti da una serie di sperimentatori e dai loro geniali, rudimentali tentativi.
E mentre il dibattito culturale provava ancora ad assegnare a quel prodigio una giusta collocazione, tra piano tecnico-scientifico e piano dell’arte, la modernità si consumava nel segno di una onnipotenza nuova: se lo spazio si era accorciato a bordo di una locomotiva, il tempo si allungava in avanti e all’indietro nel perimetro di una camera oscura.
Anche Medardo, nato e cresciuto nel pieno di quel fervore, trovò una propria dimensione fotografica, intrecciandola inevitabilmente all’avventura scultorea. Ne venne fuori una raccolta di scatti costruiti in atelier, presto passata alla storia per qualità, intelligenza visiva, legame profondo con la materia plastica, pittorica, persino teatrale e installativa.
FIRENZE, IERI E OGGI
A riaccendere i riflettori su questa collezione di stampe, sensuali e minute come le sculture, è oggi la mostra su Medardo allestita al Museo Novecento di Firenze, a cura di Sergio Risaliti e Marco Fagioli. Al centro una breve selezione di teste e busti, e poi alcune delle moltissime fotografie realizzate dall’artista nel corso degli anni. Oggetti misteriosi, magnetici. La fascinazione che ne viene diventa chiave di lettura, occasione per una riflessione trasversale.
E proprio a Firenze si inaugurò nel 1910 la “Prima mostra italiana dell’Impressionismo e di Medardo Rosso”, voluta fortemente da Ardengo Soffici, che era anche la prima mostra italiana di Medardo dopo 21 anni d’assenza dal Paese natio: approdato a Parigi nel 1889, vi sarebbe rimasto fino al 1914, ottenendo la nazionalità francese nel 1902 e conquistando da quel palcoscenico internazionale il favore della critica e delle Istituzioni in Europa.
SCULTURA COME PITTURA. IL REGIME DELLA LUCE
Artista complesso, d’indole ribelle, mosso da una fame costante d’innovazione, passato dalla Scapigliatura milanese ed emerso con fulgore nell’ambiente parigino, Medardo seppe tracciare una linea di ricerca radicale, che destò l’ammirazione di un maestro come Rodin e che ispirò i migliori esponenti delle successive generazioni, da Boccioni a Brâncuși, da Giacometti a Moore.
La fotografia – incantesimo luminoso che lasciava venire il mondo su rettangoli di rame, vetro, carta – non si staccava per lui dall’esperienza scultorea. Una questione di luce, per l’appunto. Filo aureo di tutta la sua produzione, essa divenne un’ossessione estetica, erotica, mentale, percettiva, spirituale e mondana. Tutto era luce e la luce era in tutto, a plasmare i volti e i piccoli gruppi di cera, gesso, bronzo, creta, fino a sfaldarli, a metterli in movimento, a immortalarli con una specie di violenza dolce. Spinta fino all’esasperazione, la vocazione tattile giungeva a ribaltarsi nel suo contrario: sfiorare, toccare, modellare, tormentare, al punto di distruggere la forma, tra l’occhio e la mano.
Ed erano opere offerte allo sguardo da una prospettiva sola, quasi fossero dipinti. Non occorreva girarci intorno. L’artista decideva come la luce dovesse forgiarle e come dovesse continuare a colpirle nello spazio, al cospetto del visitatore.
Forse la migliore risposta al celebre testo di Baudelaire “Perché la scultura è noiosa” (1846), provocatoriamente caustico verso un linguaggio che “mostra troppe facce in una volta. Invano lo scultore si sforza di porsi da un punto di vista unico; girando intorno alla figura lo spettatore può scegliere cento punti di vista differenti, meno quello buono, e accade spesso, cosa umiliante per l’artista, che un movimento di luce, un effetto di lume, rivelino una bellezza diversa da quella a cui egli aveva pensato. Un quadro è solo e unicamente ciò che vuol essere; non è possibile guardarlo se non nella sua luce”.
Medardo smentì il poeta, perseguendo un’idea di scultura come atto di poiesis, capace di materializzare una visione autentica, incompiuta ma categorica, fragile e insieme potentissima. L’artista esercitava la volontà, mentre la luce scolpiva la materia e la polverizzava, eternizzando l’immagine fulminea. Un furto alla morte e al flusso veloce dell’esistenza; uno smacco all’imperscrutabilità delle cose quotidiane. La scultura poteva essere oggetto dinamico, corpo organico in dissoluzione, e al contempo farsi costruzione demiurgica, autoriale, ipotesi illuminante imposta allo sguardo.
“Come la pittura”, affermava Medardo, “anche la scultura ha la possibilità di vibrare in mille spezzature di linee, di animarsi per via di sbattimenti d’ombre e di luci, più o meno violenti, d’imprigionarsi misteriosamente in colori caldi e freddi”. E come la pittura poteva cogliere l’istante, nel crepitio dei timbri mutevoli, nello zigzagare dei segni, nel fiammeggiare delle pennellate e delle velature. Vivissima. Ma, ancora come la pittura, doveva essere un’epifania. Non un oggetto tra gli oggetti, assoggettato al passo del singolo spettatore e alla collocazione ambientale, bensì un’apparizione autonoma, perentoria, dotata di luce propria.
PENSARE NELLA LUCE. OLTRE L’IMPRESSIONISMO
“Vivere è pensare senza limiti. Grande è solo il pensiero che non consce l’angustia del confine. Grande solo l’opera che sconfina nella luce”: così scriveva Rosso, ossessionato dalla luce così come lo era dall’idea di infinito, da quel ritrarsi dei confini che sfidava la ragione e la spingeva in là, mettendo in discussione la forma e il suo cliché di perfezione. “Non siamo nulla se non giochi di luce”, amava ripetere. Una consapevolezza che gli procurò l’accostamento più naturale alla lezione impressionista. Lettura paziale, nient’affatto esaustiva: fu, l’Impressionismo, solo una delle influenze recepite ed elaborate negli anni. Lo stesso Soffici, del resto – il suo più fervido sostenitore in Italia – nel 1909 scriveva a proposito del bronzeo “Ecce Puer” (1906): “Spazio e luce, espressione e verità concorrono ad animare il bronzo, il quale, cessando, però appunto, di parer materia si fa tutto vita e respira e spande tutt’intorno, come onda elettrica, il sentimento che l’anima. Onde la faccia del fanciullo, lungi ormai dal riflettere un lampo espressivo che passa, emana e propaga come un fiume silenzioso, continuo di vita, simile in questo a qualche antichissima divinità sepolta, sul cui viso immortale cola un’eternità di tenebre e di silenzio” (“La Voce”, Firenze, 19 maggio 1910, pp. 293-303). Siamo dentro l’Impressionismo, come Soffici aveva teorizzato, ma anche radicalmente oltre.
C’era un certo Espressionismo ante litteram nei volti drammatici di Rosso, dissolti in pieghe e smorfie, nelle bocche dischiuse, nella disperazione o nei sorrisi genuini scolpiti in punta di polpastrello. C’era una combinazione tra realismo e romanticismo, connessa all’esperienza scapigliata, per uno stuolo di antieroi del quotidiano, candidi, languidi, malinconici: elementi assenti nei francesi battezzati da Nadar. E c’era ‒ rispetto alla mirabile seduzione della superficie, inseguita da Renoir, Pissarro, Monet ‒ una tensione speculativa differente.
Certo la luce era sovrana, una fotocrazia che spalancava praterie, radure, abissi e ombre: il governo del visibile e l’eterna risorsa dell’invisibile. Certo, il disfacimento scintillante delle forme, il regime dell’apollineo, la negazione di una narrazione compiuta, l’abbandono dei contorni netti e delle inquadrature regolari, lo accomunavano agli Impressionisti. Ma non era tanto l’evento retinico a interessarlo; non l’esperimento percettivo, i fuochi d’artificio registrati dall’organo oculare, i processi chimici e ottici legati all’esperienza del colore. Nel caso di Medardo la trasfigurazione operata dalla luce era un fatto filosofico. Un’avventura del pensiero. Una sfida rivolta alla mente e alla sua capacità di contenere l’incontenibile. Un discorso sull’infinito. “Chi largamente vede, largamente pensa”, scriveva.
FOTOGRAFIA, ESERCIZIO DI SGUARDO E D’INTELLETTO
Tutto questo si fece anche fotografia. Ricordando che il miracolo fotografico stava proprio in quell’improvvisa testimonianza diretta del creato: nella luce e con la luce l’universo si doppiava, donandosi all’uomo senza l’ausilio della mano, del pennello, della parola, della costruzione intellettuale. Un documento parziale, immediato, soggettivo, direttamente agganciato alla realtà ma non più reale, presente e assente, capace di rivelare dettagli sfuggiti all’occhio, ma anche di escludere tutto ciò che stava oltre il margine della singola foto, oltre il visto e il visibile, oltre la costruzione esatta di una storia. La verità in frammenti e riflessi, con tutte le contraddizioni del caso.
Medardo Rosso avvertì, come tutti gli artisti dell’epoca, l’impatto di tale rivoluzione prospettica. Il tema della rappresentazione mutava, nella sua relazione col tempo, con la memoria, con la casualità, con la realtà e la sua narrazione. E così la pittura cambiò nel segno della fotografia. Come la scultura. Quella di Medardo in particolare, così selvatica, così impetuosa. Immortalata senza sosta: in studio orgaizzava ricercate composizioni di teste e di piccole figure, allestite tra piedistalli, drappi, arredi, cornici, ripiani. Un esercizio costante per imparare a ritagliare, inquadrare, delimitare, isolare, collocare nello spazio e così vedere lo spazio stesso cambiare.
Ma che funzione avevano queste stampe? Studi, probabilmente. Ma anche verifiche. E soprattutto occasioni di meditazione, dentro e attraverso la scultura. Ancora la vocazione filosofica. La fotografia, disse, “è un modo di pensare come su una carta”. È così che il pensiero affrontava certe questioni nodali: la luce, il senso d’infinito, il superamento della materia attraverso la materia stessa, il mistero delle forme presenti che evaporano, scorrono, smentendo ogni ipotesi di fissità.
Comporre quei set era come scrivere delle micro partiture, formule logico-estetiche per una nuova possibilità compositiva e speculativa. Degli accurati rassemblement, dal gusto intimo eppure teatrale, fatti di sfocature, neri assoluti, luci velate, segni pittorici o graffi realizzati poi, sulle stampe, e le continue assonanze, dissonanze, convergenze tra volumi. Esemplari di una bellezza estrema. Si trattava quindi di pensare attraverso la scultura, che passava per l’idea pittura, e che tornava di nuovo grazie all’oggetto fotografico. “L’occhio è una seconda luce”, diceva. Che era come riaffermare il potere dell’artista di partorire la natura, già solo guardandola. Farla venire, farla sparire, modificarla a piacimento, a ogni movimento di palpebre e di sinapsi. L’occhio come il sole. Una storia visionaria, proiettata verso l’audace vicenda della filosofia e dell’arte contemporanea.
‒ Helga Marsala
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