Intervista a Lorenzo Tugnoli, il fotogiornalista italiano che ha vinto il premio Pulitzer

A seguito di anni di lavoro nelle zone più difficili del pianeta giunge l’ambito premio. Chi è Lorenzo Tugnoli e qual è il percorso che l’ha portato fino a questo punto?

Lorenzo Tugnoli (Lugo, Ravenna, 1979) ha da poco ricevuto il Pulitzer per la sezione Best feature photography, ovvero miglior servizio fotografico, grazie al suo reportage dallo Yemen, realizzato per il Washington Post nel 2018.  Un riconoscimento che arriva a poca distanza dal premio del World Press Photo, sezione General News. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua esperienza e quanto il potere mediatico abbia influenza all’interno di una guerra.

Sei il primo fotografo italiano ad aggiudicarti un Pulitzer, arrivato poco dopo il premio del World Press Photo. Una doppia gratificazione giunta in seguito a un duro lavoro. Come hai accolto la notizia?
C’è stata un sacco di attenzione su questo lavoro negli ultimi giorni. Non ho ancora digerito la situazione, perché sono sempre stato al telefono per interviste, però sono contento che questa cosa possa portare più visibilità allo Yemen e alla redazione fotografica del Washington Post. L’anno scorso il giornale e i photoeditor hanno messo un’incredibile quantità di energia e fondi sul progetto, un investimento che nessuno aveva mai fatto prima.

In quali circostanze è avvenuto questo reportage?
Sono partito con un giornalista che seguiva lo Yemen già da molto tempo. Ho cercato di capire se il giornale finanziasse il viaggio, ho reperito i fondi e sono andato.

Nell’arco di quanto tempo lo hai realizzato?
Abbiamo fatto il primo viaggio a maggio 2018 e poi un altro fra novembre e dicembre. Tutte e due le volte siamo stati più o meno un mese.

Fotografare in zone sottoposte a dittatura o governi dispotici non credo che faciliti il lavoro dei media.
Si, è difficilissimo lavorarci. Ci vogliono mesi e mesi per riuscire a ottenere un visto.

Qual è la situazione politica attuale dello Yemen?
Il paese è diviso in due parti, una controllata dal governo “riconosciuto”, supportato dall’Arabia Saudita, e un altro dai ribelli.

E dove sei stato?
Ho viaggiato in entrambe le parti, le condizioni sono diverse. Nella parte dei ribelli c’è un controllo totale, se sei in albergo non lo puoi abbandonare per nessun motivo, se non scortato. Ci sono persone che ti seguono continuamente per controllare cosa fai. Nel sud del paese è un po’ più facile. Ma da entrambe le parti quello che cercano di fare è influenzare il tuo reporting per i loro scopi di propaganda.

E loro, da questo punto di vista, avevano interesse a farvi vedere le zone più critiche del paese, come gli ospedali, le condizioni di carestia e le macerie?
Dipende dove. Nel nord ci sono questi paesaggi totalmente rasi al suolo a causa dei bombardamenti sauditi, loro nemici. Quindi sono contenti di farti vedere i luoghi bombardati, i bambini malati, è come dimostrarti quanto l’Arabia Saudita sia “cattiva” e stia creando distruzione. Poi, ovviamente, non ti mostreranno le loro posizioni militari né le loro prigioni segrete. Dall’altro lato, le milizie alleate con i sauditi non vogliono farti andare nei territori bombardati da loro.

Questo solleva un fatto interessante, quello della manipolazione mediatica delle immagini.
Si, è come se tu fossi sempre in attesa di “farti usare” per la loro propaganda. Non c’è mai l’idea che siamo lì a fare il nostro lavoro e possiamo farlo liberamente, senza interferenze.

Ritratto di Lorenzo Tugnoli

Ritratto di Lorenzo Tugnoli

Fotografare tali situazioni direi che ha in sé una grossa responsabilità etica. Qual è il tuo punto di vista su questo aspetto?
È molto interessante come noi guardiamo in modo diverso a seconda del nostro background. Se noi parliamo la stessa lingua e capiamo la cultura la guardiamo in un modo, se non la capiamo la guardiamo in un altro. La guerra, la carestia, i campi profughi, sono in genere stati rappresentati da maschi bianchi che poi tornano nelle loro belle città (come per esempio io che in questo momento sono a New York).

E cosa si può fare a riguardo?
Bisogna rendersi conto che in una simile situazione è necessario porsi delle domande: come stiamo rappresentando queste persone? Questo bambino morente lo fotograferei nello stesso modo se fosse un mio familiare, se fosse bianco e italiano?  È molto importante per capire quanto sia umanizzante il tipo di rappresentazione che si vuol dare.

Ovvero?
Io faccio il fotogiornalista da dieci anni, e so che nei prossimi dieci ci saranno sempre campi profughi e bambini sporchi per strada, militari coi fucili… sono delle costanti che sempre esisteranno nel mio lavoro. Non puoi toglierli, è l’unico modo per rappresentare la guerra. Però, puoi pensare in modo critico a come li stai rappresentando.

La stessa motivazione del premio Pulitzer sottolinea due aspetti che convivono nella tua fotografia, sia l’orrore della guerra che una certa delicatezza nel trattarla.
Questo, bisogna dire, viene sì dalle mie foto, ma è stato anche molto voluto, non solo da me ma anche dagli editori con cui lavoro. Abbiamo fatto una selezione di immagini in questa direzione.

Cos’è per te uno scatto ben riuscito?
Prima di tutto, uno scatto ben riuscito lo riconosci giorni, settimane, mesi, dopo che è stato fatto. Non credo che abbiamo coscienza, mentre scattiamo, del valore delle immagini. Ci rendiamo conto che stiamo facendo qualcosa di interessante, però dobbiamo essere concentrati a “prenderla” quella scena.

In che senso?
Possiamo avere un’idea in testa, ma se il soggetto si sposta non abbiamo più l’immagine. Io lavoro con un’etica professionale che non mi permette mai, in nessuna situazione, di chiedere a una persona di posare o fare una determinata cosa. Devo aspettare che la cosa succeda.

E quando succede?
Bisogna mettere insieme la testa, l’occhio e il cuore, come diceva Henri Cartier Bresson, far coincidere la geometria con l’emozione di quel momento. L’immagine riuscita è un’immagine che comunica. Un mio amico di Magnum mi ha insegnato che ci dev’essere una connessione, tra te e quello che stai guardando. Un’immagine vuol dire niente e vuol dire tutto, se è vera viene fuori.

E come è possibile che questo avvenga?
Bisogna comunicare con il mondo, bisogna rischiare e aprirsi alle persone, perché è l’unico modo in cui esse si aprano a te.

Qual è stato il tuo primo ingaggio come fotoreporter?
È stato probabilmente nel 2006, sono andato in Chiapas, Messico. Ho fatto un lavoro sugli Zapatisti. Poi sono andato in Libano… questi luoghi, da un punto di vista geopolitico, sono stati la mia fotografia da sempre.

Quando hai intrapreso questa carriera ti saresti aspettato di trovarti a lavorare in luoghi così difficili?
Quello ho cercato di capire, un po’ per gradi, è quanto ero capace fare questo mestiere. Sono andato, ho messo insieme il lavoro e valutato la mia resistenza in quelle situazioni. Piano piano mi sono reso conto che le cose funzionavano. Ho fatto, quindi, sempre di più.

Cosa pensi abbia fatto la differenza nella tua carriera?
Ciò che ha contato nella mia carriera è stata la disponibilità di viaggiare e abitare in certi posti. Mi sono trasferito a Kabul in Afghanistan attorno al 2010: questo ha fatto molta differenza, perché c’era bisogno di fotografi da parte di ONG e testate giornalistiche. È stato parte dell’equazione del mio successo: io non  vado a fare servizi in Medio Oriente, io lì ci abito, ormai da quindici anni.

-Giulia Ronchi

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Giulia Ronchi

Giulia Ronchi

Giulia Ronchi è nata a Pesaro nel 1991. È laureata in Scienze dei Beni Culturali all’Università Cattolica di Milano e in Visual Cultures e Pratiche curatoriali presso l’Accademia di Brera. È stata tra i fondatori del gruppo curatoriale OUT44, organizzando…

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