Fotografare l’Antropocene. Intervista a Edward Burtynsky
Il fotografo canadese Edward Burtynsky è protagonista, insieme ai registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, della mostra allestita al MAST di Bologna. Una riflessione visiva sulle conseguenze e i contorni dell’Antropocene.
Antropocene è un termine coniato negli Anni Ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer per indicare l’attuale epoca geologica. L’uomo è responsabile delle modifiche climatiche, territoriali, strutturali del nostro pianeta, un tema di particolare attualità sul quale bisogna sensibilizzare ancora molto le coscienze.
A questi mutamenti si sono dedicati per quattro anni i registi Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier e il fotografo Edward Burtynsky (St. Catharines, 1955). Dalla collaborazione a sei mani è nata la mostra ospite del MAST di Bologna.
Abbiamo parlato con il fotografo canadese del suo grande progetto, che va ben oltre la semplice ricerca fotografica.
Da situazioni drammatiche, per certi versi spaventose, da cumuli di rifiuti tossici, da paesaggi completamente sconvolti dalla mano terribile e dalla mente sinistra dell’uomo, sei riuscito a dare vita a immagini stupende che probabilmente qualcuno collezionerà, appenderà alle pareti della propria casa. Come riesci a conciliare l’orrore delle situazioni con la bellezza delle tue fotografie? In tal senso mi viene in mente quel verso del poeta Rainer Maria Rilke che recita: “Il bello non è che il tremendo al suo inizio”.
C’è una ragione per cui molte persone spengono i notiziari, prendono una pausa dai social media quando insorgono situazioni terribili o girano lo sguardo quando accadono delle tragedie. Danno fastidio e spaventano. Ma subito, inevitabilmente, tornano a guardarle più volte. I paesaggi nelle mie fotografie sono probabilmente tutto questo, sono terribili, come tu dici, ma le persone sono ugualmente attratte da tutto ciò, e, per estensione, dai problemi che sono presentati, perché sono esteticamente attraenti.
C’è sempre un momento di scoperta o stupore quando incontri qualcosa che inizialmente è visivamente avvincente, ma questo diviene chiaro e più evidente quando ci hai passato del tempo insieme. E quando le persone fanno questa connessione e si rendono conto di quello che stanno osservando, raramente si voltano dall’altra parte. Ne restano coinvolti, nonostante le verità spesso scomode che stanno dietro a tutto questo. I paesaggi nelle mie fotografie non sono paesaggi di disastri; sono, piuttosto, i soliti paesaggi: c’è un’equivalenza tra essi e le nostre vite. La creazione delle nostre città richiede la rimozione di materiali dalla natura in modo equivalente. Queste immagini ci permettono di comprendere le conseguenze del nostro modo di vivere e cosa e chi siamo diventati.
Vi siete serviti di una tecnologia avanzatissima per realizzare i lavori in mostra al MAST di Bologna. Faccio una domanda provocatoria: l’uso sempre più avanzato delle tecnologie, che si evolvono in continuazione e che creano moltissimi scarti, genera inquinamento. Come ti poni di fronte a questo problema?
Una delle cose che vorrei dire qui è che l’intera produzione di questo progetto è stata carbon offset (compensazione di carbonio), attraverso una compagnia chiamata Less Emissions, e questa è una pratica a cui aderisco con tutti i miei progetti. Anche il libro della Steidl Anthropocene, è stato realizzato carbon offset. Quindi, assolutamente, noi, come artisti, siamo consapevoli delle ironie e dei costi (monetari e planetari) coinvolti nel fare arte che parla dei problemi dell’umanità di fronte alla Terra. Ma penso anche che alcune di queste cose ‒ come la tecnologia e l’uso degli iPad nelle mostre ‒ non siano necessariamente evitabili. Queste cose sono profondamente radicate nella nostra cultura attuale e, in molti casi, sono state parte di progressi eccezionali.
Non credi che evoluzione e involuzione siano due facce della stessa medaglia? Abbiamo il coraggio di prenderci delle pause?
Siamo abbastanza coraggiosi da considerare l’altra faccia della medaglia? Le conseguenze di questo progresso? Credo di sì. Non credo che potremo tornare a vivere fuori dalla terra come un tempo, ma penso che potremo essere responsabilizzati da quel riconoscimento, e usare l’innovazione e l’ingenuità della nostra specie per dare una svolta alle cose e creare un futuro sostenibile.
Hai dedicato alcuni lavori alle cave di Carrara. Le cave sono un momento fondante della storia dell’arte già dall’antichità, anche se, a partire dal XVIII secolo, con l’avvento degli esplosivi, l’attività è aumentata in maniera esponenziale. L’uomo ha sfruttato quei luoghi, li ha devastati, depredati, non solo per la produzione artistica. La produzione di marmo in Italia è uno dei settori più importanti dell’economia e dell’industria nel Paese. Quei paesaggi scarnificati, derubati, sono “architetture negative”.
Anche le fotografie e i filmati delle cave di Carrara sono una pietra miliare per me, poiché, mentre lavoravo a The Anthropocene Project, ho avuto l’opportunità di tornare nel luogo preciso che fotografai nel 1993. Quindi, oltre vent’anni dopo, non solo ho avuto modo di sperimentare nuovamente questo sito di immensa estrazione umana, ma sono stato in grado di vedere il passaggio del tempo attraverso i muri delle cave e ho appurato quanto sia progredita la tecnologia. Rivoluzionaria, al pari dell’invenzione degli esplosivi, è l’introduzione delle tecnologie di perforazione e del taglio del diamante che hanno fatto avanzare i metodi di estrazione. Per me, le architetture negative o invertite, create dai processi di estrazione, lavorano come se le cave fossero uno specchio di quell’esponenziale sviluppo umano che sta avvenendo in moltissime città nel mondo. Il riflesso di queste estrazioni si può notare nelle strutture che erigiamo nel tentativo di toccare il cielo.
Pensi che un lavoro come il tuo riesca a sensibilizzare l’uomo? L’arte la fotografia possono aiutare in tal senso?
Lo scopo di The Anthropocene Project era assolutamente quello di aumentare la consapevolezza ‒ verso la parola stessa (volevamo renderla il più possibile familiare) e verso le modalità insostenibili con le quali il genere umano vive e consuma il pianeta. E assolutamente direi che l’arte e la fotografia sono utili in questa missione. Gli approcci visivi integrano metodi più scientificamente didattici o giornalistici per comunicare un problema, ad esempio attraverso grafici o mappe. Un film o una fotografia visivamente avvincenti potrebbero non essere in grado di cambiare le leggi direttamente, ma possono aiutarci ad assumere consapevolezza. Possono contribuire agli importanti dibattiti dei quali c’è bisogno.
‒ Angela Madesani
ha collaborato Lara Morello
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