Teoria e pratica della fotografia. Intervista con Joan Fontcuberta
In attesa del grande approfondimento sulla fotografia tassonomica pubblicato fra le pagine del nostro magazine, l’intervista a uno dei massimi esperti del settore, Joan Fontcuberta. Protagonista del talk “Il tradimento delle immagini”, in programma da Camera, a Torino, il 13 giugno.
Tra i lavori contemporanei in cui è più evidente una matrice tassonomica vi è quello del catalano Joan Fontcuberta (Barcellona, 1955). La sua non è soltanto una ricerca artistica: ogni problematica è affrontata in chiave teorica, speculativa. Di recente pubblicazione in Italia, per i tipi di Einaudi, è il suo La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, una preziosa analisi riguardante il ruolo delle immagini nel nostro tempo, un tempo di produzione e ricezione compulsiva, ossessiva, in cui ogni giorno nel mondo si producono miliardi di “fotografie” attraverso strumenti sempre più democratici.
Qual è il legame fra Herbarium e la ricerca di Karl Blossfeldt?
Penso che Herbarium (1982-84) possa considerarsi un omaggio ironico a Urformen der Kunst (1928) di Blossfeldt. L’immaginario di Blossfeldt era radicato nel Romanticismo e il suo scopo era celebrare la natura come fonte d’ispirazione per l’arte. Ma sessant’anni dopo quell’ingenua pretesa non era più possibile ed Herbarium evoca una natura degradata, contaminata, resa artificiale. Blossfeldt non era uno scienziato, ma un professore d’arte che voleva mostrare ai suoi allievi la relazione che corre tra le morfologie del mondo vegetale e l’ornamentazione architettonica, il disegno.
Nulla a che fare con la botanica, dunque.
Blossfeldt non ha mai avuto la pretesa di dar vita a un atlante botanico, voleva piuttosto creare materiale di matrice didattica. Quando ho concepito Herbarium mi sono proposto di utilizzare lo stesso criterio, però mi sono reso conto che il progetto, oltre a mettere in discussione la storia dell’arte, metteva in discussione anche la verità scientifica e la natura stessa dell’immagine documentale. È qui che hanno iniziato a interessarmi il metodo scientifico e la tassonomia, di cui mi sono appropriato per generare la confusione tra realtà e finzione. Herbarium è stato spesso presentato nei musei di storia naturale camuffando la propria dimensione artistica. Affinché questa operazione avesse successo, dovevo utilizzare tutto ciò che il pubblico identificava come scientifico. Ho creato un erbario simile a quelli dei botanici, che sistemano i diversi esemplari di vegetali sulle pagine dei loro album. Solo che il mio raccoglie piante eccentriche, d’invenzione.
Si può riscontrare una valenza tassonomica anche in Frottogrames, Constel-lacions, Semiòpolis, Hemogrames, Securitas…
Tra queste serie è sicuramente Constel-lacions (1993-97) quella che da un punto di vista concettuale funziona in maniera più simile ad Herbarium. Si tratta della strategia artistica del fake o della verofiction, ovvero offrire rappresentazioni ingannevoli di stelle in Constel-lacions e di fiori in Herbarium. In prima istanza lo spettatore le scambia per vere, ma in un secondo tempo ne scopre il carattere fittizio. Il fake praticato dagli artisti o dagli attivisti politici non aspira all’inganno ma a mostrare i meccanismi dello stesso.
E nelle altre serie?
Frottogrames (1987-90) e Hemogrames (1998-1999) sono progetti con un’accezione più analitica dell’immagine, ma continuano a riferirsi al mondo organico. Non a caso mi interessa la fotografia della natura come pretesto per analizzare la natura della fotografia. In Frottogrames recupero il frottage ideato da Max Ernst e cerco di applicare alla fotografia quella procedura surrealista, come scrittura automatica visuale, alla fotografia. In questo modo l’immagine finale stratifica diversi livelli di informazione: l’aspetto visivo, ma anche le caratteristiche fisiche dell’oggetto rappresentato, così come la propria gestualità dell’atto per generare l’immagine. In Hemogrames non si tratta di fotografare gocce di sangue ma di utilizzare quelle gocce come una sorta di negativo: la luce deve attraversarle per proiettarsi sulla carta fotosensibile. In questa serie mi interessano egualmente la capacità formale tanto della materia come della luce.
Perché lavori per serie?
La differenza tra un fotografo e un artista è che il fotografo produce immagini mentre l’artista produce progetti. Un progetto solitamente richiede un insieme di immagini che costituiscono una “massa critica”. Al di sotto di questa massa critica non si produce una reazione significante, il progetto non può essere spiegato.
In La furia delle immagini. Note sulla postfotografia hai parlato di una tua esperienza personale, legata all’accumulazione seriale: tua moglie, la scultrice canadese Sylvie Bussières, ha raccolto per parecchio tempo bottoni. C’è un legame tra l’accumulazione seriale di cui parli e il concetto di tassonomia? Ci troviamo di fronte a delle Wunderkammern?
La tassonomia è una volontà di classificare e ordinare la diversità e costituisce il metodo di catalogazione proprio dei musei e delle collezioni moderne. Le Wunderkammern e le moderne collezioni sono governate da modelli opposti. Il gabinetto delle curiosità o Wunderkammer riunisce un insieme di elementi selezionati da un criterio, che privilegia la singolarità, l’eccezionale, l’incredibile, l’inaudito. Al contrario la collezione moderna, che cerca di stabilire un canone basato sull’uniformità di una specie, si fonda sulla razionalizzazione di un certo tipo di categorie. Associamo la Wunderkammer alla confusione, al disordine, all’arbitrarietà e pertanto a tutto ciò che è meraviglioso. Il suo grande trionfo sarebbe l’attuale configurazione di Internet, un grande campo di battaglia fra tassonomia e caos.
Qual è il legame tra collezionismo e tassonomia?
Collezionare è un’azione che obbedisce a due impulsi. Il primo è la spinta ad accumulare e a possedere, mira a costituire un’eredità personale. In secondo luogo è un modo di prendere decisioni, in tal senso implica degli atti di soggettività, di affermazione d’identità individuale e sociale, che aspira a durare oltre la nostra scomparsa, testimoniando i nostri valori e la nostra sensibilità. Collezionare o raccogliere precedono l’azione tassonomica. La sequenza completa delle fasi sarebbe: raccogliere, discriminare, ordinare, classificare e ridare un senso.
Nel libro definisci i Becher “collezionisti di edifici”. In più punti parli di “artisti collezionisti”.
Viviamo nella società dell’eccesso, anche nella produzione di immagini e beni culturali. Di fronte a questo stato di massificazione asfissiante s’impone un’ecologia critica. Di fronte alla saturazione di immagini all’artista contemporaneo, con un senso di responsabilità storica e politica, si aprono due vie: cercare le immagini mancanti o procedere alla gestione critica dell’abbondanza. A questa seconda via si ascriverebbero gli artisti che io chiamo “neo-enciclopedisti”.
Spiegaci meglio.
Il proposito dei primi enciclopedisti era introdurre la razionalità nell’oscurantismo dominante, ma ora ci troviamo a vivere un’altra era di oscurantismo, di dogmatismo, di post verità, di neoliberismo atroce, di conformismo politico… e si deve apprezzare che gli artisti arrivino a introdurre saggezza, sebbene solo come testimonial. La tassonomia, la razionalità possono contribuire a tutto questo. Gli artisti neo-enciclopedisti seguono i passi di D’Alembert e Diderot, le ossessioni tipologiche di Francis Galton e Cesare Lombroso, dell’Atlas Mnemosyne di Aby Warburg, del Musée Imaginaire di André Malraux e del saggio sulla classificazione di Foucault, fino ad arrivare a Hans-Peter Feldmann e sorpassarlo.
Cosa caratterizza la loro pratica?
Reinventano i principi di classificazione e ordinamento che dovrebbero governare la nostra esperienza, per dare un significato all’incommensurabile magma di dati e immagini attualmente disponibili. Gli artisti neo-enciclopedisti esaltano così l’idea di un’“opera-collezione” che consiste nel raggruppare un numero enorme di immagini collegate da un qualche tipo di parentela. In questo modo si generano strutture significative, secondo una “poetica del catalogo”, citando Umberto Eco, che prevalgono sui valori dell’immagine singola e autonoma. Questo gesto rivaluta il lavoro del collezionista che, nel determinare un criterio di raccolta e nel prendere decisioni sui possibili repertori, mette in campo anche la sua esperienza e la sua creatività: in questo modo qualsiasi raccolta può essere considerata sotto questo punto di vista un’opera d’arte.
Quanto l’era post-fotografica ha cambiato tutto questo?
Questo nuovo impulso enciclopedico è un fenomeno post-fotografico, come lo sono quei tributi malinconici alle rovine del fotografico: l’attuale fascino per la fotografia vernacolare o le fotografie in stato di deterioramento. La post-fotografia potrebbe essere caratterizzata, sintetizzata, con il concetto di smaterializzazione dell’immagine, dalla riformulazione della nozione di autore, ma soprattutto dalla proliferazione di immagini: siamo tutti produttori e consumatori di immagini, è l’emergere dell’Homo photographicus. Dobbiamo renderci conto che siamo immersi in un paesaggio avvolto da schermi, nei quali l’immagine formatta le nostre coscienze. La politica, la guerra, l’economia, le relazioni personali, tutte le fasi della vita tendono a confluire nell’immagine. L’immagine sta nell’epicentro del sistema di dominazione globale. In questa drammatica sfida storica abbiamo la responsabilità di epurare l’attuale valanga di immagini: segnalare quelle immagini che solo pretendono di renderci più sottomessi invece di attivare immagini che sfidano le nostre situazioni circostanti.
‒ Angela Madesani
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #49
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati