Il diario di un voyeurista. La fotografia di Anton Yelchin a Roma
Spazio Field di Palazzo Brancaccio, Roma – fino al 30 novembre 2019. La fotografia di Anton Yelchin spazia tra i calmi e contemplativi paesaggi di Wim Wenders e gli scatti pornochic di Helmut Newton. Prevalgono i ritratti. Tante maschere, corpi nudi e sguardi coinvolgenti che tentano di condurre nelle notti inquiete del backstage hollywoodiano.
Anton Yelchin, morto prematuramente nel 2016, fino a poco tempo fa era conosciuto soltanto come talentuoso attore hollywoodiano. Ma durante i lavori sui set cinematografici di celebri film come Star Trek e Alpha Dog, Yelchin ha sviluppato un’altra grande passione – la fotografia. Solo pochi erano al corrente di questa attività coltivata quasi in segreto negli ultimi sei anni di vita. Affascinato da luci sgargianti, specchi, maschere, spazi notturni e alienanti Yelchin ha registrato con la sua Leica la vita segreta di Los Angeles emersa nelle trasgressioni e dimensioni astratte. Gli scatti più accattivanti sono stati esposti nella prima europea dell’attore presso Spazio Field del Palazzo Brancaccio a Roma.
Il lavoro di Yelchin ha un carattere voyeuristico. L’artista mostra una rara capacità di trasformare racconti intimi e trasgressivi in immagini semplici e ingenue. Sommergendo le scene nella penombra e nuvole di fumo, crea uno straordinario reportage notturno che cattura drammi, emozioni e sentimenti. Non a caso la sua fotografia si avvicina alle opere autobiografiche della fotografa Nan Goldin.
I RITRATTI
Tra gli scatti prevalgono i ritratti: un perfetto miscuglio di persone famose e sconosciute che sembrano sfidare lo sguardo dello spettatore, senza alcun timore, spesso con espressioni arroganti e provocatorie. A volte sorprende una tristezza disarmante paragonabile alle atmosfere della pittura psicoanalitica di Lucien Freud. E poi tanti nudi, gli oggetti fetish, l’abbigliamento erotico e le situazioni ambigue che richiamano le scene create dal controverso fotografo di moda Helmut Newton. Non mancano gli autoritratti dove Anton, come l’artista americana Cindy Sherman, mostra un particolare interesse verso se stesso: si specchia, si posiziona per poi scattarsi diverse fotografie, a volte sovrapposte giocando con smorfie e sdoppiamenti.
TABÙ E MALINCONIA
Le fotografie di Yelchin colgono con naturalezza le perversioni e i tabù della vita quotidiana, ma nelle sue scene rintracciamo anche solitudine e melanconia. Tra maschere grottesche e paesaggi alienanti troviamo i richiami alle opere di Wim Wenders, ai suoi grandi spazi illimitati racchiusi sotto cieli immensi. “Fare fotografie mi sembra un modo per esprimere un certo tipo di narrazione emozionale, astratta”, diceva Yelchin, lasciando allo spettatore la libera interpretazione delle sue opere scattate in sequenza come fosse un film.
La mostra è stata promossa da Yelchin Foundation. Curata da Clayton Calvert e Alessio de’ Navasques, è stata presentata a Roma in occasione di Videocittà, festival ideato da Francesco Rutelli.
‒ Anita Kwestorowska
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