Fotografare le rovine di Pompei. Kenro Izu a Modena
L’Ex Manifattura Tabacchi di Modena ospita gli scatti di Kenro Izu, il fotografo giapponese impegnato da anni in una restituzione visiva delle rovine di Pompei.
Requiem for Pompei è il titolo della mostra di Kenro Izu (Osaka, 1949), curata da Chiara Dall’Olio e Daniele De Luigi, presso la Fondazione Modena Arti Visive ‒ MATA, con 55 fotografie inedite del settantenne artista giapponese. Il progetto è iniziato nel 2015, in collaborazione con la Fondazione Fotografia Modena, ed è dedicato alla città campana, distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. In mostra ci sono anche alcune copie dei calchi in gesso delle vittime dell’eruzione. Le opere sono state donate alla Fondazione di Modena dall’artista giapponese, al quale abbiamo posto alcune domande a proposito di questo lavoro.
Perché un uomo giapponese di cultura, di arte, di fotografia, come te, da quarant’anni fotografa le antichità, dall’Egitto alla Cambogia al Tibet all’India al Messico sino all’Isola di Pasqua?
Perché la gente prega? A memoria d’uomo la gente ha sempre pregato. Inizialmente al sole, alle montagne, agli alberi, alle rocce, alla luna. Quindi le persone hanno iniziato a costruire dei soggetti da pregare, inizialmente semplici, un cerchio di pietre che poi si sono evolute in architetture come Stonehenge, le piramidi in Egitto e poi templi e chiese.
Qual è stato il motore che ti ha spinto?
Riuscire a visitare e a sentire il potere di quei luoghi in cui noi preghiamo, soprattutto quando ci troviamo ad affrontare delle difficoltà, un lutto, il destino, fenomeni incontrollabili che non possiamo gestire. È stato un mio forte interesse visitare e catturare l’atmosfera di questi luoghi per sentire il potere dei nostri antenati pregare e registrarli con la fotografia.
Mi incuriosisce sapere quale rapporto hai instaurato con Pompei. Un ambito lontanissimo dalla cultura dalla quale provieni, che sei, tuttavia, riuscito a cogliere con un forte afflato poetico. Vogliamo parlarne nello specifico?
Quando ho visitato il sito di Pompei con i calchi delle persone morte 1900 anni fa, a causa dell’eruzione del vulcano, ho pensato che mi sarebbe piaciuto mostrare la paura e la crudeltà di una morte che era giunta improvvisa per un disastro naturale. Mostrare la loro morte è una sorta di avvertimento per la nostra contemporaneità. Nel nostro tempo non ci troviamo solo di fronte alle catastrofi naturali, come le eruzioni vulcaniche, i terremoti, gli tsunami, gli uragani, ma anche a catastrofi provocate dall’uomo come le esplosioni nucleari che possono rappresentare una minaccia reale. In quanto originario dell’unica nazione che ha subito l’esplosione della bomba atomica, quando ho visto i calchi di Pompei l’ho avvertito come un messaggio degli uomini antichi per gli uomini contemporanei.
È come se nelle tue fotografie il tempo fosse bloccato. Qual è il peso della memoria nel tuo lavoro?
In alcune delle mie fotografie mi piace ricreare, con un certo pathos, la scena del momento in cui i monumenti stanno crollando. Come puoi vedere nelle mie fotografie di soggetto floreale, aspetto che i fiori invecchino per mostrarne la caducità. In quei momenti mi piace cogliere le situazioni. Per me la “bellezza” non è nel culmine della vitalità, quanto piuttosto nel momento in cui si coglie il passare del tempo con le sue stratificazioni.
In tal senso è interessante, ma anche inquietante, la presenza in mostra delle riproduzioni dei calchi originali. Perché questa scelta?
In queste fotografie i calchi sono anche la presenza umana. Il mio Requiem for Pompei sarebbe stato insignificante senza la presenza dei calchi, delle persone. Non mi entusiasmavo più con le sole rovine architettoniche. Attraverso l’interazione con i corpi potevo raccontare le storie degli antichi giorni di Pompei.
‒ Angela Madesani
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