Quando la fotografia guarda all’ambiente. Intervista a James Casebere
Architetture ibride del futuro in risposta al cambiamento climatico: una nuova serie di scatti di James Casebere è in mostra alla Galerie Templon di Parigi.
Attualmente in mostra presso la Galerie Templon di Parigi, James Casebere (Lansing,1953) propone una serie originale di scatti incentrati sulle principali questioni contemporanee in merito al cambiamento climatico e alla minaccia di un disastro ambientale.
On the Water’s Edge è un nuovo progetto che guarda al futuro positivamente, ipotizzando la nascita di nuove strutture architettoniche ibride, all’interno delle quali gli spazi pubblici e i santuari privati si combinano.
Come hai scoperto la tua passione per la fotografia?
Da bambino avevo una macchina fotografica Brownie, successivamente ho realizzato un progetto come studente di scuola superiore grazie al quale ho imparato a usare la Fujica Rangefinder di mio padre con cui ho fatto tutti i tipi di test di esposizione, movimento e profondità di campo. Le mie foto preferite erano quelle che mio padre aveva portato dal Giappone mentre era un parlamentare, lavorando con l’intelligence dell’Army Air Corp, l’OSS, durante l’occupazione statunitense di Tokyo. C’erano foto con amici giapponesi e geishe, in posa davanti ai templi buddisti e shintoisti. Quelle immagini mi incantavano.
Quali sono state le tue motivazioni e quali persone/artisti hanno avuto maggior influenza sulla tua pratica professionale?
Sono stato motivato da artisti che hanno usato la macchina fotografica per documentare spettacoli, installazioni temporanee, lavori sulla terra, ecc. Al liceo ho amato il lavoro di professionisti come Robert Morris, Robert Smithson, Michael Heizer e artisti coinvolti in eventi, come Oldenburg, Kaprow, Warhol, Antinova. Alla scuola d’arte ho letto il libro di André Malraux Il museo dei musei (le voci del silenzio). La mia esperienza artistica è stata mediata dalla fotocamera e vissuta principalmente attraverso la riproduzione di sculture convertite in immagini bidimensionali, spesso in bianco e nero. Sono stato anche influenzato dalla letteratura latinoamericana e messicana sul Realismo magico, nonché dal modo in cui le fotografie sono utilizzate per costruire una realtà immaginaria da parte di coloro che detengono il potere per i propri scopi.
Ritieni che la fotografia possa aver cambiato il modo in cui guardi il mondo?
Credo abbia aperto il mondo ai miei occhi, dandomi la chance di immaginare luoghi lontani, allo stesso modo talvolta ha creato una sorta di confusione tra la realtà e l’immaginazione all’interno dei miei stessi ricordi di foto di famiglia personali. Penso che la fotografia abbia stimolato le mie domande su come ognuno di noi costruisce individualmente (e socialmente) la propria visione del mondo, non sulla base dei fatti, bensì della mescolanza tra memoria e immaginazione.
In un’intervista hai detto, per quanto riguarda il tuo lavoro: “Vedo l’arte come un processo di dialogo sociale. Ora sto cercando di ridurre le immagini ai loro elementi essenziali. Le stanze interne non sono solo un riflesso del mio studio ma anche un riflesso dei meccanismi della fotografia. La cella è una piccola scatola, come la fotocamera, e la finestra è un’apertura che fa entrare la luce. La stanza è una camera oscura”. È corretto supporre che l’arte rappresenta per te uno strumento universale di comunicazione, un veicolo per superare le barriere interculturali?
Lo spero. È un processo complicato. Ho imparato a essere scettico nei confronti delle affermazioni in merito a tutto ciò che è considerato universale. Naturalmente la fotografia viene spesso utilizzata anche come strumento per creare barriere.
Attraverso l’uso cinematografico della luce, basato solidamente su regole architettoniche, realizzi immagini concettuali, che diventano metafora della condizione umana. Ad esempio, nella serie carceraria, la tua estetica visiva comunica una critica al concetto di reclusione solitaria. Cosa pensi della fotografia artistica opposta a quella documentaristica?
Non sono mai stato veramente interessato alla fotografia documentaristica, perché sembra registrare ciò che considero distrazioni, il più delle volte. Sono più interessato alla fotografia come uno degli strumenti dell’arsenale di un artista che realizza l’opera partendo da zero.
C’è qualcosa che desideri ancora realizzare con la fotografia, che ritieni di non aver ancora avuto la possibilità di fare?
In questo momento sto progettando un’architettura per il futuro, desidero costruire un contesto scenografico in un luogo reale, per fotografare l’opera in un ambiente immaginario. Questo procedimento è per me lo strumento di esplorazione del cambiamento e, si spera, dell’ipotetica realizzazione di un futuro migliore.
‒ Elena Arzani
Parigi // fino al 7 marzo 2020
James Casebere ‒ On the Water’s Edge
GALERIE TEMPLON
30 rue Beaubourg
www.templon.com
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati