Chi era Luigi Ghirri? Il racconto delle figlie Ilaria e Adele
Sono passati 28 anni da quando Luigi Ghirri, fotografo del quotidiano, ci ha lasciati. A ricordarlo nel giorno della sua scomparsa sono oggi Ilaria e Adele, figlie del grande artista.
Il 14 febbraio del 1992 moriva a Roncocesi, piccola frazione in provincia di Reggio Emilia, uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento: Luigi Ghirri. Grazie ai suoi scatti rivolti al mondo quotidiano, alla sfera del “banale”, agli scorci meno spettacolari della periferia italiana, l’autore è considerato tra i maestri imprescindibili della fotografia nazionale.
A ricordarlo sono oggi Ilaria e Adele Ghirri, figlie del fotografo. Ecco le loro memorie, personali e toccanti, in omaggio all’uomo e all’artista.
WHAT’S THE WEATHER LIKE? ‒ ILARIA GHIRRI
“What’s the weather like today?” Ogni mattina rivolgo questa domanda ai bambini nella scuola dove insegno con passione da oltre vent’anni. È un modo sì per consolidare semplici strutture linguistiche, ma per me rappresenta molto altro.
Ogni mattina, da bambina, vedevo mio padre uscire di casa con la macchina fotografica Canon a tracolla e gli chiedevo dove andasse. Lui rispondeva sorridente “A fotografare il cielo”, come se non vi fosse nulla di più naturale e importante. Non ho mai smesso di guardare il cielo ogni giorno: lo faccio con mia figlia in auto, con la quale ci ritroviamo spesso senza parole per la bellezza dell’alba, e lo faccio con i miei bambini a scuola. È un modo solo mio per portarlo con me, per far vivere il suo pensiero così importante sull’esterno, l’amore che nutriva per il mondo e per la fotografia che, straordinario mezzo narrativo, diventa, nella sua opera, un vero e proprio linguaggio universale che ci consente infinite possibilità di percezione e narrazione di sé (mondo interno) e contemporaneamente del mondo esterno, ricordando sempre quanto sia importante non dare mai nulla per scontato, dandolo per “già visto o già conosciuto”.
Questo preambolo per dire ciò che da lui e dalle sue foto ho imparato: “Non c’è nulla di antico sotto il sole”. Se noi guardiamo bene, possiamo ri-vedere con affetto e stupore rinnovato ciò che ci circonda per non dimenticarlo, per scoprirlo di nuovo e poterne godere in modo diverso. Tutto ci accompagna e si stratifica dentro di noi e riaffiora grazie al potere della memoria che ci riporta indietro, ma anche dentro a mondi infiniti di analogie e possibilità narrative.
Non scorderò mai la tenerezza e la gioia che mostrava nel fermarsi all’improvviso durante uno spostamento in auto con Bob Dylan a tutto volume sempre presente, come folgorato da qualcosa che lo aveva colpito. Fermava la macchina, scendeva, posizionava il cavalletto e scattava, così, in mezzo alle strade che eravamo soliti percorrere da Reggio a Modena, dopo che eravamo stati a trovare i nonni. Si trattava di strade conosciute, come la via Emilia – dove avevamo i nostri posti preferiti per una sosta (un’acqua brillante o il milionesimo caffè) –, o che a volte imboccavamo per caso, alla ricerca di qualche edicola (un quotidiano e Mucchio Selvaggio non mancavano mai) o di una trattoria dove fermarci a mangiare prima di arrivare a casa. Io cercavo di intuire ciò che aveva visto, mi avvicinavo al cavalletto per sbirciare l’inquadratura e aggiungere un nuovo tassello di conoscenza, un altro pezzettino di cielo al puzzle di immagini che, magicamente, alla fine, mi aiutavano a conoscerlo. Ogni volta, attraverso lo straordinario “giocattolo magico” che era la fotografia, mi regalava qualcosa di lui e aiutava me a guardare il mondo con maggior familiarità e meraviglia.
Lentamente, col tempo, le sue immagini mi hanno aiutato a conoscermi meglio, a ri-conoscermi, a sentirmi a casa in un mondo dove sembra prevalere sempre di più la sensazione di sradicamento. Le sue immagini sono ancora, per me e, credo, per tanti, i sassolini di Pollicino per ritrovare la strada di casa così, come sono certa, lo fossero per lui. Non so se a un padre, come a un artista, si possa chiedere qualcosa di più importante dell’emozione di sentirsi in viaggio verso casa.
RICORDARE L’IMMEMORABILE ‒ ADELE GHIRRI
Avverto sempre una certa difficoltà quando mi viene chiesto di scrivere qualcosa in memoria di mio padre Luigi proprio perché non ho alcun ricordo di lui.
La mattina del 14 febbraio 1992 avevo quattordici mesi. Spesso, per semplificare, dico di non averlo conosciuto, poi mi rendo conto che non è del tutto vero. Semplicemente non posso riportare alla mente quel breve periodo della vita durante il quale le nostre storie si sono incrociate.
Questo fa anche sì che non possa avvertire la sua assenza come vera e propria mancanza o nostalgia, ma piuttosto come l’unica condizione in cui mi è stato possibile stabilire un rapporto o un dialogo con lui. L’assenza di Luigi è, nell’accezione più affettuosa del termine, incredibilmente ingombrante. Ho imparato – e continuo tutt’ora – a conoscerlo dai racconti di parenti e amici, ma soprattutto attraverso le immagini e le parole che ha lasciato al mondo. Di recente scrivevo che i segni da lui lasciati costituiscono per me (prendendo in prestito una metafora che lui stesso ha usato) un geroglifico – non totale, ma intimo – da decifrare, sapendo che non lo decifrerò mai definitivamente.
Sono felice di prendermi cura della sua opera, sulla quale trovo ci sia ancora moltissimo da dire e da scoprire. Credo infatti che, forse, il modo più adatto di ricordare Luigi, non solo nell’anniversario della sua morte, ma ogni giorno, sia quello di trattare la sua figura con uno sguardo libero da storicismi e categorizzazioni, mostrando la rilevanza del suo lavoro e del suo linguaggio nel contemporaneo. Vale a dire, mantenendo il suo pensiero vivo, in costante dialogo e scambio con il presente.
Vorrei poter raccontare qualche episodio o aneddoto di noi insieme, ma questo non è possibile, e, anche se fossi nella posizione di farlo, forse lo riterrei troppo intimo. Ricordo però di conservare ancora un vecchio VHS che ho riguardato spesso da bambina.
Pochi mesi prima di morire, Luigi aveva acquistato una cinepresa con la quale aveva iniziato a registrare alcuni video; sono riprese per lo più realizzate nei dintorni della grande casa di Roncocesi – dove vivo tutt’ora –, la stessa che compare nella foto di notte, con le impronte dei suoi passi impresse sulla neve fresca.
Ci sono diversi filmati del cielo ripreso dal finestrino della macchina in movimento (colonna sonora rigorosamente di Bob Dylan) e molti altri con me. Mia madre, che riesco invece a ricordare con grande nostalgia, ipotizzava che stesse iniziando a sperimentare con l’immagine filmica. Da anni non dispongo più di un dispositivo in grado di riprodurre quella videocassetta. Immagino che, guardata ora, per la qualità tipica di un VHS registrato rudimentalmente nel 1991, sembrerebbe antichissima.
Non compaio mai insieme a lui, che resta nascosto dall’altra parte della telecamera. Dalla scelta delle inquadrature mi sembra spesso di apparire all’interno di una sua fotografia. C’è una sequenza lunga alcuni minuti del campo da calcetto in cemento di fronte a casa; la telecamera immobile, probabilmente posta su un treppiede, rimane puntata sulla porta da calcio in lontananza, e al posto del portiere ci sono io seduta sul passeggino – c’è silenzio e di tanto in tanto si sente il motore di un’auto in lontananza. Il video si interrompe bruscamente e, dopo pochi attimi, un altro filmato: sono sdraiata a pancia in giù sul prato del nostro giardino, ho in mano una foglia di vite e la osservo con aria concentrata e curiosa, si sente la sua voce fuori campo, mi chiama, alzo lo sguardo e gli sorrido.
‒ Alex Urso
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