Nell’era della proliferazione delle immagini, un’era in cui tutti, ma proprio tutti, scattano foto in continuazione, è quanto mai utile ricordare che c’è una fotografia che è ricerca, documento, denuncia. La fotografia come strumento di comprensione del reale ha una lunga e onorata storia e può (deve) avere un futuro. A tutelare quella storia e garantire quel futuro servono istituzioni culturali come l’International Center of Photography di New York, che ha da qualche giorno trovato una nuova casa in quello che è forse il quartiere con il passato culturale più ricco della città.
Fondato nel 1974 da Cornell Capa, fratello minore del celebre fotoreporter Robert e fotografo a sua volta, l’International Center of Photography nasce come evoluzione dell’International Fund for Concerned Photography, creato dallo stesso Capa nel ‘66 con l’intento di dare continuità e visibilità al lavoro di fotografi impegnati su tematiche sociali e in zone di guerra. Quando la prima sede dell’ICP aprì le porte su Fifth Avenue, l’obiettivo della nuova istituzione culturale era quello di supportare la fotografia come mezzo di espressione creativa e costruire un archivio fotografico attraverso cui documentare la storia del Ventesimo secolo. Nel corso degli anni, agli archivi si sono aggiunti spazi espositivi per mostre temporanee (oltre 700 in 45 anni) e una scuola che ha formato decine di fotografi di successo.
‒ Maurita Cardone
L’INTERNATIONAL CENTER OF PHOTOGRAPHY
Dopo diversi cambi di sede e un’espansione al Mana Contemporary di Jersey City, oggi il museo trova casa nel Lower East Side e per la prima volta si ricongiunge con la scuola. L’edificio che lo ospita è una appendice del brutto palazzo retrostante di 14 piani, firmato SHoP Architects, a sua volta parte di una riqualificazione complessiva di un’area del quartiere storico di New York che per lungo tempo era rimasta sotto-utilizzata e che da un paio d’anni sta vivendo un’accelerazione da cui il Lower East Side uscirà irrimediabilmente trasformato. Ma tra i nuovi palazzi di lusso, le caffetterie hipster e i supermercati per giovani professionisti, l’ICP apre uno spiraglio di luce, una luce fatta di cultura e impegno sociale. Progettato da Gensler, lo spazio dedicato al centro di fotografia occupa un’area di oltre 3700 metri quadrati tra gallerie, laboratori multimediali, aule per le lezioni, camere oscure, studi fotografici, spazi per eventi e una biblioteca di oltre 22mila volumi. Al piano terra, in uno spazio stretto e lungo cui si accede da un ingresso su Essex Street e uno su Ludlow Street, si trovano il bookshop e una caffetteria. Due dei tre piani superiori ospitano gli spazi espositivi.
All’ultimo piano, un’ampia sala centrale, per l’apertura del museo, ospita l’installazione Warriors di James Coupe che utilizza la tecnologia del deep fake per sostituire le immagini “donate” dai visitatori ai volti del film cult The Warriors (I guerrieri della notte, 1979). Per mezzo di un algoritmo di analisi e classificazione demografica, il sistema associa le fotografie del pubblico, raccolte attraverso tre postazioni, ai personaggi del film che, in tre scene riprodotte su maxi schermi nelle gallerie, vengono sostituiti con i volti dei visitatori, i quali si trovano così a subire il destino dei personaggi senza alcuna possibilità di controllo. Il lavoro di Coupe, commissionato dal museo per l’occasione, è una riflessione sui processi di manipolazione dei dati e dell’identità innescati dalle nuove tecnologie.
IL LOWER EAST SIDE
Sullo stesso piano, uscendo dalla sala centrale, ci si ritrova in un ballatoio affacciato sul piano inferiore e sul cui perimetro esterno sono esposte le fotografie che compongono la mostra Lower East Side: Selections from the ICP Collection. Attingendo dalla propria collezione di lavori della prima metà del Novecento, il museo riesce a mettere insieme una piccola storia del quartiere che al tempo era il più multietnico e più densamente popolato degli USA. Primo approdo degli immigrati provenienti da tutto il mondo, il Lower East Side già dalla fine dell’Ottocento iniziò ad attirare l’attenzione di riformatori come il giornalista Jacob Riis, che si armò di macchina fotografica per documentare come viveva “l’altra metà”, da cui il titolo del suo reportage che contribuì a una serie di riforme per migliorare le condizioni di vita nei tenement, i caseggiati in cui abitava la popolazione meno abbiente della città. Qui in mostra sono alcune delle immagini simbolo di quel periodo, che denunciano la povertà e lo squallore di minuscoli e affollati appartamenti. Nei decenni successivi, molti dei fotografi che documentarono il Lower East Side erano loro stessi figli di immigrati: per loro quel quartiere era casa e nelle loro fotografie traspaiono tutta la dignità e la ricchezza culturale di un luogo iconico dell’esperienza newyorchese. In mostra ci sono, tra le altre, fotografie di Weegee, Dan Weiner, Bill Witt, Ilse Bing, Otto Hagel, Lisette Model. Si legge nel cartello introduttivo della mostra: “In quanto nuovo arrivato nel quartiere, l’ICP si impegna a creare un coinvolgimento con le tante storie visive di questo luogo dinamico che è stato al centro di riforme e reinvenzioni per più di cento anni”. Speriamo mantenga l’impegno anche per il futuro.
TYLER MITCHELL
Scendendo al piano inferiore, sulla sinistra, si accede subito alla bella mostra I Can Make You Feel Good di Tyler Mitchell che, nel 2018, a 23 anni, è stato il primo fotografo afroamericano a firmare una copertina di Vogue, immortalando Beyoncé. La mostra si struttura in quattro stanze che comprendono stampe, video e un’installazione di foto riprodotte su tessuti appesi come panni stesi al sole, tra asciugamani e calzini. E mantiene la promessa del titolo: le immagini con cui Mitchell ritrae una fisicità nera, leggera e allegra, riescono davvero a comunicare un senso di benessere e freschezza, che tuttavia non sfugge a una nota di tristezza legata alla consapevolezza, accentuata da una palette di colori dolci, che si tratti di un’utopia. Il lavoro è una interpretazione dell’identità nera nel contemporaneo e propone una contronarrativa densa di speranza e di una voluta ingenuità da cui emana potenza.
L’HIP-HOP
Il corridoio con i panni stesi conduce a una ampia sala affacciata sulla strada e incorniciata dal ballatoio del piano superiore. Qui si sviluppa la mostra principale con cui il nuovo museo si presenta al pubblico. CONTACT HIGH: A Visual History of Hip-Hop è, come dice il titolo, una storia per immagini di quello che al momento sembra essere diventato il genere musicale del secolo. Organizzata in diversi ambienti suddivisi da un sistema di pareti mobili, la mostra è stata inizialmente realizzata nel 2019 a Los Angeles ed è nata da un’idea della giornalista Vikki Tobak e dell’artista Fab 5 Freddy ed è in parte tratta dal libro omonimo firmato da Tobak. Particolarità del libro come anche della mostra è che la giornalista è riuscita a raccogliere non soltanto le foto, ma i provini di stampa. Attraverso questa selezione di immagini che hanno un che di dietro le quinte, la mostra ripercorre le origini e le evoluzioni di una rivoluzione culturale che nasce dalla strada e che va ben oltre la musica.
Nelle immagini scattate da fotografi diventati a loro volta celebrità, si rintracciano le prime vibrazioni di un hip-hop che andava di pari passo con la Street Art e la controcultura che fioriva dalla decadenza urbana: una foto di Sophie Bramly ritrae Keith Haring schiena a schiena con Futura; uno scatto di Jamel Shabazz cattura tre bambini che fanno acrobazie rimbalzando su un divano abbandonato in strada. La mostra prosegue ripercorrendo gli Anni Novanta, un decennio cruciale per la diffusione dell’hip-hop. Le immagini in mostra documentano gli esordi di Wu-Tang (fotografati da Danny Hastings), A Tribe Called Quest (immortalati da Janette Beckman), Tupac Shakur (nell’iconica foto in bianco e nero a torso nudo di Danny Clinch) e altri. È del 1997 una delle immagini più riconoscibili della mostra: quella che, a pochi giorni dalla sua uccisione a Los Angeles, fissa per sempre nell’immaginario collettivo il faccione scazzato di Notorius B.I.G., incoronandolo King of New York, re del rap, santo martire della cultura hip -hop. In mostra c’è la foto, con tanto di provini (in uno degli scatti Biggie, incredibilmente, sorride), e la corona originale usata dal fotografo Barron Claiborne. È dell’anno successivo la fotografia simbolo di un’epoca, qui riprodotta sull’intera parete che affaccia su Essex Street: A Great Day in Hip Hop, in cui Gordon Parks immortala oltre 200 protagonisti della scena hip hop del momento, in posa sulle scale davanti a un edificio di Harlem. La foto, destinata alla copertina del magazine XXL, è un omaggio a un’immagine simile, scattata da Art Kane nel 1958 per la rivista Esquire, in cui in posa c’erano 57 grandi del jazz. Il luogo è lo stesso, così come la stessa è la cultura che ha dato vita a quei suoni destinati a cambiare la storia della musica. Ma sono gli Anni Duemila a segnare il successo incontrastato dell’hip hop che produce star internazionali e diventa fenomeno planetario. La mostra segue quegli anni con foto di Johnny Nunez, Mike Schreiber, Jorge Peniche e ancora Janette Beckman e Danny Clinch e altri. Ma ormai l’hip hop ha perso l’odore della strada e le foto si fanno più patinate, posate, artificiali. Glamour, come è stata, proprio grazie al richiamo di questa mostra, la serata inaugurale del museo, cui hanno partecipato diverse celebrità, tra cui Questlove, A$AP TyY, Marisa Tomei, Debi Mazar, Jasmine Lobe.
FOTOGRAFISKA
E se di glam parliamo, al panorama della fotografia newyorchese si è di recente aggiunta un’istituzione che delle fotografia mostra tutt’altro volto. Fotografiska viene da Stoccolma, dove è stata fondata nel 2010 da due fratelli con la passione per la fotografia, e quella di New York, aperta a dicembre, è la terza sede internazionale (segue Tallin e precede Londra). Si presenta non solo come spazio espositivo, ma come luogo di aggregazione e, fin dall’ingresso su Park Avenue, vi si respira un’aria diversa che all’ICP. Diverso è, tanto per iniziare, il quartiere scelto dall’istituzione svedese: siamo nel Flatiron district, a due passi dall’elegante Madison Square Park, tra palazzi di lusso e destinazioni turistiche. Lo stesso edificio che ospita Fotografiska è una perla architettonica del 1894, in stile neo-rinascimentale fiammingo. Ma con l’eccezione del ristorante (art déco e intitolato a Santa Veronica, protettrice dei fotografi) e dell’ultimo piano che ospita uno spazio eventi e artisti in residenza, gli interni obliterano il carattere e la storia dell’edificio, in favore di spazi neutri e flessibili. Va detto, a onor di cronaca, che lo scempio risale a tempi precedenti all’insediamento di Fotografiska, quando l’edificio era occupato da uffici. Ma non è solo il contenitore a mancare di carattere. Gli oltre 4000 metri quadrati distribuiti su sei piani ospitano al momento cinque mostre che, ben allestite e attentamente illuminate, si servono del mezzo fotografico per creare qualcosa di più vicino all’arte decorativa che alla documentazione del reale.
LE MOSTRE DI FOTOGRAFISKA
La più grande delle cinque è una retrospettiva sul lavoro della fotografa di moda tedesca Ellen von Unwerth dal titolo Devotion! 30 Years of Photographing Women ed è una carrellata senza contenuti, idee o cuore, di stereotipi femminili che fa un po’ male vedere ancora celebrati nel 2020. I contenuti invece non mancano, almeno sulla carta, nelle mostre Thinking Like a Mountain di Helene Schmitz, Testaments di Adi Nes e Inheritance di Tawny Chatmon. Eppure la ricerca estetica ha il sopravvento e le immagini restano distanti, nella loro studiata perfezione. Capita con le foreste e le montagne sventrate da miniere e dighe rappresentate da Schmitz, troppo belle per suscitare sofferenza o preoccupazione, così come capita con le immagini di soldati israeliani composte con richiami rinascimentali e biblici da Adi Nes e con i corpi di donne e bambine di colore decorate con drappi di gusto klimtiano di Chatmon. Unica incursione nel reale sono le foto di Anastasia Taylor-Lind, raccolte nella mostra Other People’s Children, un progetto commissionato per l’occasione da Fotografiska e Time, in cui la fotografa racconta il delicato rapporto tra alcune famiglie benestanti di New York e le donne immigrate che si prendono cura dei loro figli. La mostra, organizzata in un allestimento che richiama un po’ l’impaginazione di una rivista, un po’ le pareti del salotto di casa, mette in fila una serie di immagini intime, rubate al quotidiano, che hanno la capacità di creare un senso di straniamento e disagio in chi guarda. La serie è la prima della versione newyorkese del programma Fotografiska for Life, con cui l’istituzione svedese commissiona a fotografi e fotogiornalisti progetti di rilevanza sociale, in partnership con importanti media internazionali e ONG.
Le mostre cambieranno quattro volte l’anno e la prossima tornata è prevista per aprile. Nel complesso è lodevole che Fotografiska abbia dedicato quattro delle sue mostre di apertura a delle donne e una a un fotografo gay, ma l’esperienza non vale i 28 dollari del biglietto d’ingresso, che sono tanti anche per New York, nonostante il valore aggiunto della possibilità di una visita in notturna (il museo resta aperto fino alle 23 nei giorni feriali e a mezzanotte nel weekend), opzione purtroppo preclusa anche al pubblico delle grandi istituzioni museali della città che non dorme mai.
DOROTHEA LANGE
Per fortuna, per riconciliarsi con la fotografia c’è il MoMA, dove domenica 9 febbraio apre la mostra Dorothea Lange: Words & Pictures, un viaggio tra le storie raccontate attraverso la lente e le parole della fotografa che diede un volto alla povertà dell’America rurale. La retrospettiva, in corso fino al 2 maggio, raccoglie circa 100 fotografie tratte dalla collezione del museo che ripercorrono l’intero arco della carriera di Lange, dai primi approcci alla street photography ai grandi reportage sugli emarginati della società americana, ai progetti internazionali degli ultimi anni. Come in quasi tutto il lavoro di Lange, alle immagini sono associate parole: a volte sono le frasi raccolte dalla stessa fotografa negli incontri con i suoi soggetti e poi appuntate sulla sua agenda, altre volte sono poesie, canzoni folkloristiche, stralci di giornale, passaggi di trattati di sociologia. La mostra presenta il lavoro di Lange nei diversi contesti per cui era stato originariamente realizzato: libri, reportage per magazine e quotidiani, ricerche per conto del Governo. Per ognuno dei diversi mezzi c’è un diverso uso della parola che espande la fotografia e ne rinforza il valore sociale. In un saggio scritto nel ‘52, Dorothea Lange criticava i fotografi del suo tempo, accusandoli di evadere dal reale e di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità e unicità, a scapito del familiare e intimo. La fotografia contemporanea, scriveva Lange, “è più interessata alle illusioni che alla realtà. Non riflette ma inventa. Vive in un mondo suo”. Non poteva immaginare quanto queste parole sarebbero state vere qualche decennio dopo.
www.icp.org
www.fotografiska.com
www.moma.org
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