Olivo Barbieri e la fotografia del dubbio
La personale di Olivo Barbieri “Mountains and Parks”, ospite del Centro Saint-Bénin di Aosta ma chiusa in risposta alle misure di contenimento del Coronavirus, si sposta adesso online. Proseguendo una riflessione sulla linearità apparente della fotografia di paesaggio.
“Mi sento come un criceto che si sta preparando per le olimpiadi”. Olivo Barbieri (Carpi, 1954) è chiuso nel suo studio dominato da un immenso tavolo bianco, fermo, in una pausa di azione ma non di pensiero. Il suo progetto, il più lungo della sua vita e chiamato obbligatoriamente site specific_ (con trattino basso a segnarne la perenne natura in progress), lo ha accompagnato in ogni angolo del mondo, a domandarsi quali siano i significati degli ambienti dell’uomo; lo spazio costruito, lo spazio naturale, e, molto più spesso, quello che sta in mezzo, in una fusione che ormai è la regola anche per ciò che chiamavamo “spazio incontaminato”.
Da questa prospettiva è nata la personale Mountains and Parks, in origine ospite del Centro Saint-Bénin di Aosta fino al 28 aprile, che oggi elude la quarantena e si apre a tutti, spostandosi sul profilo Instagram dell’artista; il titolo placidamente descrittivo nasconde un esercizio di sconfinamento da categorie troppo certe e viaggia sulla natura ambivalente del termine “parco”, così come accade per la sua stessa concezione di fotografia.
I parchi di Barbieri, dalle reali riserve naturali a quelle artificiali (come le discariche del Terzo Mondo) o a quelle tematiche (i musei), o mentali (i codici dei nomadi americani e Rom), non contengono informazioni lineari ma elementi che fungono da chiavi per altre interpretazioni; in un’immagine dedicata alle cascate di Iguazu (Argentina) qual è il parco ritratto? Quello naturale o quello dei turisti plasticamente raccolti – e protetti ‒ nella piattaforma che si staglia sulle acque?
CAMBIO DI PROSPETTIVA
Barbieri fa scivolare i punti cardinali della percezione, benché l’alterazione sia solo apparente, di fatto un ampliamento, una sottolineature delle anime “nascoste” dell’immagine che ci sta di fronte; una filosofia visiva che nasce dalla tecnica di base del fuoco selettivo, da lui portata alla storia della fotografia contemporanea nei primi Anni Novanta.
Un’idea geniale come lo sono quelle che nascono dal più semplice dei quesiti; se l’obiettivo è nato per correggere la distorsione dello sguardo, perché non usarlo al contrario? Le parti sono scisse tra ciò che è a fuoco e quello che si sottrae a esso, la gerarchia del “primo piano” è spezzata; allora i parchi si espandono e diventano contenitori fragili, confini dai tratti liquidi; una veduta di Canaletto è offuscata fino a farsi “nuova”, la prospettiva aerea delle Alpi si mimetizza nel gioco tra la neve e il total white della pittura digitale, i faraglioni di Capri nel cielo irreale di un ricordo di vecchie vacanze…
LA SCOMPARSA DELL’INCONTAMINATO
La riflessione (allargata anche al bell’incontro a margine della mostra, tra Barbieri e lo scrittore premio Strega Paolo Cognetti) è anche sulla scomparsa dell’incontaminato, o meglio sulla sua domesticazione; “le cascate del Niagara”, ci ricorda, “si presentano non per quello che sono ma per quello che è reso possibile da innesti tecnologici, azionati di notte, quando i turisti non vedono”. La fotografia di Barbieri regala proprio perché toglie.
‒ Giuseppe Sterparelli
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