Fotografie, ‘spiando’ al di là di una finestra: la Milano del Coronavirus e non solo
Storie di fotografi che hanno puntato l’obiettivo su finestre accese, appena dischiuse, spalancate. Canali d’accesso alla vita segreta di città, quartieri, abitazioni. E si parte proprio da Milano, con un servizio realizzato nei giorni della clausura, combattendo da casa il contagio virale.
“Ho la febbre. È una febbre bassa ma persistente. Aumenta nel pomeriggio e mi scuote al mattino, con una violenza che non è proporzionata alla temperatura che ho. Ho i brividi, i muscoli mi fanno male e ho una preoccupante tosse secca. E sono affaticata”. Comincia così il racconto che Gea Scancarello – giornalista globetrotter, freelance e inviata per diverse testate, da Vogue a Lettera43 – ha pubblicato lo scorso marzo sul National Geographic: l’editoriale in forma di testimonianza, confezionato per la prestigiosa rivista internazionale, è un racconto in soggettiva dall’Italia, nei giorni feroci del Coronavirus e del distanziamento coatto. Voce narrante di una solitudine tra mille solitudini, Scancarello scrive dalle zone più colpite della Penisola. La sua Milano, oggi città piegata e cupa, epicentro di un’epidemia che non accenna a rientrare – non in quelle zone, non in quel Nord che sta pagando il prezzo maggiore – è l’emblema di un Paese che ci prova, tra errori, ritardi, improvvisazioni, e che per strada sta imparando cosa fare, come farlo, con quali tempi e quali strategie: politiche, sanitarie, economiche, sociali. E con quali conseguenze, soprattutto.
MILANO, IL VIRUS E IL SERVIZIO SUL NATIONAL GEOGRAPHIC
“Io e il fotografo Gabriele Galimberti”, scrive l’autrice, “abbiamo lavorato giorno e notte nelle ultime settimane a Milano. Da quando l’epidemia COVID-19 è scoppiata in Italia, alla fine di febbraio, abbiamo documentato ogni giorno l’emergenza dal suo epicentro, la nostra Regione, la Lombardia. Abbiamo visitato obitori e ospedali, alla ricerca di storie e immagini che avrebbero potuto dire al resto del mondo cosa stava succedendo qui. Abbiamo parlato con virologi, addetti stampa dell’ospedale, uomini d’affari cinesi, guardiani del cimitero. Abbiamo incontrato operatori urbani incaricati di disinfettare le strade”. Il racconto prosegue, intrecciando numeri, dati, questioni irrisolte; e il sentimento della paura per una condizione vissuta sulla pelle: l’attesa del test, la propria fragilità polmonare come fattore di rischio ulteriore, le domande rimaste inevase, la pena per chi aveva pianto amici e familiari, i dubbi sui protocolli sanitari e la speranza che qualcosa, prima o poi, torni a funzionare. E compiere 40 anni così, tra la febbre e il sospetto, chiamando il numero d’emergenza e cercando di ottenere un tampone. Intanto contare “gli infetti e i morti”, senza sosta, ad ogni bollettino di guerra, ad ogni conferenza stampa, ad ogni articolo di giornale: “contare, contare e contare ancora, ogni notte”, temendo per sé e per i propri cari.
Gea Scancarello ha portato così a termine il suo progetto, assieme a Gabriele Galimberti (1977). Scrivendo lei, fotografando lui. Trovando insieme un’angolazione. Fra immagini e testo il servizio ha restituito ai lettori una città sospesa, riscoperta attraverso il filtro della separazione sociale. L’obiettivo si sofferma sulla vita che scorre, nonostante tutto, al di là delle finestre. Cittadine e cittadini con cui conversare, poi da immortalare, nel tempo dilatato e nello spazio contratto di una cattività che salva, o che comunque tutela. Sono loro gli attori di un sogno sognato in piena veglia, dove il contatto è solo di occhi, di gesti, di pensieri, di distanze ed empatie. La trama si svolge tra lo spaesamento e l’attesa, il desiderio di fuga e l’accettazione di protocolli severi, l’angoscia di una limitazione forzata – poliziesca, militare – e il senso di conforto che quella stessa limitazione induce, nella vulnerabilità collettiva che ci ha riscoperti umani, tutti, finalmente. La routine si trasforma allora in una pellicola algida, da riempire con abitudini, ritmi, rituali nuovi. E la luce, che sia diurna o vespertina, ha il timbro di un azzeramento totale.
Tace, la città. E si muovono come comparse gli uomini e le donne che la fotocamera cattura, nell’intimità di appartamenti trasformatisi in prigioni. Primo comandamento: non uscire. Balconi, androni, cortili, ballatoi condominiali, rampe di scale, serrande chiuse, finestre accostate o spalancate, accedendo all’intimità di vite al rallentatore, in cui le lancette degli orologi, quasi, non servono più. E sono cucine con tavoli da apparecchiare, luci gialle spalmate tra librerie e divani, biciclette parcheggiate fuori, orti o giardini come felici ripari, bambini tra le braccia, schermi accesi, giornate da inventare. E lo sguardo, fisso, al di là.
Galimberti mette i suoi soggetti in posa, evitando la suggestione dell’immagine “spiata” e puntando sul gioco della generosa partecipazione: single, coppie, famiglie immobili dinanzi all’obiettivo si lasciano disegnare dalle geometrie di grate, aperture, facciate. E dal fulgore di un’illuminazione artificiale che si fonde con le note del crepuscolo, dei mattini senza sole, delle notti che avanzano tutte uguali, custodendo la noia, la speranza, la paura. Di soglia in soglia, di portone in portone.
IL MONDO IN UNA FINESTRA, TRA SENSO E SEDUZIONE
La fascinazione per quei piccoli mondi privati, protetti dalla luce di appartamenti, alberghi, uffici, villette, è cosa antica. Ed e tutt’uno con quell’umano impulso di voyeur, che è un misto di poesia, di perversione, d’immedesimazione, di curiosità bonaria e di attitudine al ruolo di “spettatore”. Si guardano in rewind i giorni e i luoghi, si osserva l’esistenza fluire – convulsa, lenta, frammentaria – così come il teatro nei millenni ha insegnato a fare; o meglio, così come il teatro in un tempo mitico capì, rubando all’occhio e allo spirito l’ossessione per la scena, per l’ebbrezza del miracolo, per l’epifania del quotidiano e lo stupore, per l’urgenza di verità in forma di narrazione. Per quella pioggia minuta di fenomeni, dinanzi a cui spalancare pupille, bocche, orecchie, emozioni.
E la finestra è metafora perfetta di questo grandioso sentire che si trasforma in racconto, originariamente, incessantemente. L’attitudine arcaica per la rappresentazione: serve un palco, un’inquadratura, una profondità prospettica, un taglio, un fondale, una pagina, un quadro in cui fingere di entrare, o magari entrarci per davvero, lasciando che tutto il resto, quello che rimane fuori, la realtà senza contorni e in movimento, la confusione dei dettagli e l’inafferrabile sequenza delle azioni, siano sospesi, un istante. Dimenticati, estromessi, tagliati via. In funzione della storia che lì – e solo lì, dentro al rettangolo sacro – comincia a disegnarsi e a venire. Quadri, fotografie, schermi cinematografici, fogli di carta. Tutti specchi, infedeli, in cui saltare. E così è per le file trasparenti di aperture che ricamano prospetti di palazzi, lembi di città: che siano catturate da un dipinto o da una fotografia, le finestre funzionano come nuovi spazi di finzione, quadri nel quadro, teatri di un teatro.
D’obbligo citare Hitchcock e la sua “Finestra sul cortile”, e con lui Edward Hopper, che attraverso decine di porte e finestre su tela inquadrò frammenti di una middle class americana dissolta nel silenzio, nei cieli bianchi e nei locali vuoti, nella case mute e nelle stanze in penombra o assolate: l’utopia di una modernità in corsa si faceva oggetto di un’inquieta meditazione esistenziale.
LA LUNGA INDAGINE DI GIORGIO BARRERA
Ma sono infinite le volte in cui l’arte e la letteratura hanno fatto di una finestra materia d’ispirazione, nel corso della storia. Simbolo stesso della genesi visiva, nonché spunto d’indagine e di sceneggiatura.
Tra le esperienze condotte in Italia, a proposito di fotografia, un riconoscimento importante va assegnato a Giorgio Barrera (1969), raffinato esponente di una generazione di autori che – tra street photography e ricerca sul paesaggio – sta indagando il linguaggio fotografico con un approccio sociologico non convenzionale, giocato sul confine con l’arte contemporanea, tanto intellettuale quanto carico d’umanità, rigoroso esteticamente ma proiettato su una dimensione di autenticità. Dal 2002 al 2009 Barrera ha portato avanti il progetto “Through the Window”, tra le sue produzioni più note e apprezzate. Scatti di una bellezza composta e commossa, la cui eleganza è figlia – con evidenza – di una cultura visiva fortissima: dall’evocazione fiamminga al timbro esistenzialista, passando per l’accento pop o minimalista, senza rinunciare a una coerenza che è tutta nello “stile”, nella cifra propria. Prive di concessioni all’intimismo e all’estetizzazione, le foto – centinaia di situazioni e di storie, tutte diverse – viaggiano lungo una linea di felice ambiguità percettiva, narrativa, emotiva. Persino lo statuto dell’immagine risulta, in tal senso, indefinito. Realtà o immaginazione? Messa in scena o documentazione?
Descrive bene il progetto il critico Daniele De Luigi: “La fotocamera viene posizionata dirimpetto a un edificio di abitazione e orientata verso una o più finestre, a una distanza variabile ma tale che esse costituiscano una porzione considerevole o comunque incisiva dell’inquadratura; nella parte restante sono talvolta visibili l’architettura della casa, le aree antistanti, gli spazi del vicinato. Al di là dei vetri, i residenti, consapevoli della presenza del fotografo, sono intenti in comuni attività quotidiane, in attesa che i lampeggiatori sistemati all’interno della stanza vengano azionati a distanza dall’autore, a sua discrezione, così da permettergli di illuminare adeguatamente la scena e scattare, contemporaneamente, la fotografia. È evidente, già da questa sommaria descrizione, come il lavoro di Barrera, oltre a giocare con la psicologia dello sguardo, si ponga in un guado, in un terrain vague tra la fotografia staged, “allestita”, e la fotografia straight, diretta, tra l’immagine come documento e quella plasticienne”.
L’immagine fotografica, che porta con sé – come il paesaggio incollato al vetro di una finestra – spessore, peso e qualità del reale, è al contempo suo retroterra immaginario, traccia onirica e irrisolta, per sempre ‘ulteriore’.
GAIL ALBERT HALABAN, STORIE DI DIRIMPETTAI
Diversi sono gli artisti che, sulla scena internazionale, hanno usato la fotografia per indagare scampoli di biografie invisibili, rubate attraverso finestre, abbaini, terrazze, vetrate. Punti di luce che, soprattutto nell’incantesimo notturno o serale, accendono le sinapsi dell’immaginazione.
Tra le esperienze più note c’è quella di Gail Albert Halaban, fotografa statunitense, classe 1970, che dal 2006 immortala uomini e donne nelle loro case, tra New York, Parigi, Istanbul, Buonos Aires e diverse città italiane (Milano, Roma, Firenze, Napoli, Palermo). E lo fa dall’esterno, anche lei, così come si scruta un fatto proibito attraverso il buco di una serratura. Almeno in apparenza.
“Out my Window”, come nel caso di Barrera, mette al centro della scena le finestre stesse, i personaggi che si muovono – lontani o abbastanza prossimi – e i frammenti urbani che l’inquadratura, mai troppo serrata, lascia intravedere. In qualche caso sono zoom di volti e di figure, in altri casi è la città a dominare, con dettagli di architetture, piazze, strade, scorci di panorama. E le finestre funzionano allora solo da indizi, suggerimenti, piccole torce o sussurri nel buio. Il silenzio e il senso di sospensione restano, tutt’intorno, la cifra principale: set onirici, per definizione.
Tutto è costruito, però. Con sapienza e pazienza. E tutto comincia raccogliendo le storie di chi, dalle finestre di fronte, aveva davvero osservato, spiato, interpretato gesti e abitudini dei propri vicini. Sono i dirimpettai a consegnare all’artista suggestioni e spunti, ed è da lì che il processo creativo comincia, nel segno di quella che diventa, a tutti gli effetti, una forma di estetica relazionale e poi di scrittura scenica: “Per i progetti nelle altre città”, ha raccontato a Vogue, “avevo avuto bisogno di molta preparazione, ma per l’Italia no: nei quartieri si spargeva subito la voce, in tanti venivano a raccontarmi i gesti quotidiani di chi avevano osservato per anni, e s’offrivano di accompagnarmi a citofonare e a chiedere il permesso per la foto”. Percorsi lunghi, complessi, con una buona dose d’incertezza e di casualità, contrapposta alla cura maniacale per lo scatto, l’inquadratura, i soggetti in posa, le luci e tutti gli oggetti a corredo, tra interior design e scenari metropolitani. Ricostruire sì, ma sulla base di un’indagine reale, fra la vita e gli sguardi delle persone, fra testimonianze minute e memorie romanzate.
MICHAEL WOLF E LE METROPOLI DA SPIARE
Assai diverso l’approccio del tedesco Michael Wolf, grande protagonista della fotografia contemporanea, vincitore di due World Press Photo, scomparso nel 2019 a 64 anni nella sua casa di Hong Kong, città in cui viveva dal 1994. Flâneur, voyeur, narratore infaticabile di vite vissute nella frenesia di megalopoli ad alta densità, Wolf ha immortalato schiere compatte di palazzoni senza aria né prospettiva, biancheria perduta (“Lost Laundry”) e liricamente incagliata tra fili d’acciaio, davanzali, antenne, caldaie, tubature del gas, aeratori, micro reperti a cui nessuno avrebbe mai prestato attenzione; e poi volti di viaggiatori compressi contro i finestrini di claustrofobiche metropolitane, ma anche dettagli di una Parigi perlustrata tramite Google Street View, rendendo davvero visibile ciò che la tecnologia fa, ogni giorno, dei nostri luoghi, delle nostre esistenze, del nostro privato: “Si è trattato di un lavoro concettuale e sperimentale”, ha spiegato in un’intervista rilasciata a Klat nel 2013. “Quello che Google fa con la vita delle persone è incredibile, non riuscivo a credere che potesse esserci una telecamera in certi momenti: dall’infarto in mezzo a una strada, alla signora chinata a far pipì, all’aria aperta”. E poi le finestre, ça va sens dire, immancabili icone di reportage che puntano al cuore di comunità complesse, cercando tracce di solitudini, relazioni, routine, ossessioni.
Wolf non costruiva i suoi set. E le immagini le rubava, letteralmente, con occhio spietato. Tutto il suo lavoro ha toccato, con spregiudicata tensione sociologica e concettuale, il tema della privacy e dell’identità perduta nell’avanzare informe della massa urbana. Per il ciclo “Window Watching” non ha fatto altro che appostarsi, cercare, osservare, identificare la preda e poi ‘sparare’. “Non si vedevano cose così eccitanti, rapporti sessuali o omicidi: a Hong Kong in tanti giocano con l’iPad o leggono un libro. Il South China Morning Post mi ha duramente attaccato per violazione della privacy, ma non avevo binocoli o altro, mi limitavo a fotografare quello che vedevo. Non è colpa mia se le case sono così vicine le une alle altre, gli architetti dovrebbero rifletterci”. La realtà, nient’altro che la realtà. Nuda, cruda, ruvida, asfissiante, concreta. Banale. Piena di tenerezza e dì verità, come quei rettangoli di luce rivelano nell’ora del silenzio, della distanza e del segreto, che così segreto in fondo non è. Il dato socio-culturale ancora una volta è trainante: così lontani, così vicini. Le case dei grattacieli sono nuclei di incomunicabilità, ma anche celle di alveari brulicanti, in cui tutto si mischia, tutto è promiscuo, tutto è alla mercé di altri che rimangono estranei: l’intimità, come utopia ultima.
Le foto di Wolf hanno un calore singolare, una temperatura alta. L’ebbrezza del furto ne fa materiale fiammeggiante, col senso del rischio che si incolla in superficie e la sensazione forte dell’occhio che entra, indiscreto, a prendersi pezzi di una quotidianità selvatica, erotica, plurale, sudicia, poetica, ordinaria, infinitesimale. Egualmente trafitta dal silenzio e dal rumore.
ONIRICO, SENSUALE. IL BIANCO E NERO DI CHATILA
Ancora diversa e degna di nota la ricerca di Yasmine Chatila, nata al Cairo nel ’74 e cresciuta tra l’Egitto, l’Italia, la Francia e il Canada. La scelta del bianco e nero conferisce al lavoro una patina cinematografica d’antan, insieme alla grana porosa, ai contorni a volte indefiniti, alle angolazioni oblique, ai dettagli catturati come riflessi in uno specchio o apparizioni irreali. Scatti su cui l’artista interviene in postproduzione, sfocando, ricontestualizzando, azzardando accostamenti nuovi. Operazioni di linguaggio e di montaggio, a proposito di cinema. E c’è una sensualità speciale, nello sguardo di Chatila, mentre cattura la morbidezza dei corpi e delle ombre, la vibrazione emotiva, la meditazione solitaria o l’intesa tra più persone, tirando fuori dal manto ombroso della città la sua cifra più avvolgente.
Ancora una volta New York diviene teatro di piccoli teatri da spiare, appostandosi per ore nell’attesa della scena giusta, dell’accadimento spontaneo in cui l’occhio esperto riconosca un bagliore, una specie di perfezione che connetta il luogo privato e lo spazio pubblico, le forme e le luce, la scenografia sontuosa e l’apertura domestica. E sono due uomini stretti in un abbraccio d’amore, un musicista di schiena sul davanzale di un palazzo incorniciato da marmi fastosi, dei danzatori alle prese con i passi di una coreografia, una ragazza e il suo doppio allo specchio, incastrata tra un corridoio, un pensiero distratto e le fessure di una tapparella.
O ancora il corpo nudo di una giovane donna, accovacciata sul letto e intenta forse a scrivere su una tastiera: le linee di lei si confondono con i disegni delle grate, e tutto sfuma, si perde, nella polvere visiva, nel brusio di un’immagine pulviscolare, nel candore di un corpo che perde i contorni e che non ha nome, né storia. Corpo anonimo, perfettamente fuso con il dispositivo ottico, poetico e concettuale da cui si genera la visione: la finestra, l’apertura, il buco, la quinta, la soglia, la superficie opaca di un palazzo e il suo sfondamento momentaneo. Storie tutte da immaginare, nel silenzio o nella frenesia di città sospese, tra una profonda umanità e il senso d’alienazione.
– Helga Marsala
www.gabrielegalimberti.com/§
www.giorgiobarrera.it/
www.gailalberthalaban.com/
http://photomichaelwolf.com/
http://www.yasminechatila.com/
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