Fotografare con lentezza. Intervista ad Akinbode Akinbiyi
Protagonista della mostra allestita al Gropius Bau di Berlino, Akinbode Akinbiyi descrive il suo modo di fare fotografia e la sua passione per una vita lenta.
Six Songs, Swirling Gracefully in the Taut Air è il titolo della mostra fotografica del nigeriano Akinbode Akinbiyi (1946) ospitata presso il Gropius Bau di Berlino sino al 19 luglio. Si tratta di opere provenienti da lavori diversi realizzati negli ultimi quarant’anni. Ne abbiamo parlato con lui.
Da dove trae spunto il titolo della rassegna?
Musica, armonie, accordi, disaccordi risuonano costantemente nei nostri percorsi quotidiani. Spesso sentiamo il suono travolgente del traffico nelle grandi città. È una musica che suona rumorosamente pesanti accordi di basso, che vibrano direttamente negli organi interni. È il canto degli uccelli che sentiamo flebile. Le sei canzoni sono composizioni acutamente ascoltate nella cacofonia, sono risonanze che si sono già formate, insistito su un’ulteriore vita, una rappresentazione in forma visiva dell’esperienza acustica. Come il vento che soffia costantemente, i suoni turbinano e ondeggiano. L’aria però è tesa, carica di aspettative, quasi a sfidare il suo compito essenziale, quello di dare respiro, consentendo l’esistenza. Bisogna ascoltare, per quanto debolmente, le dolci canzoni della casualità, del costante movimento in avanti. Il percorso non finisce mai.
Mi pare di capire che questa mostra ospiti parte del tuo archivio personale. Un lavoro in cui è evidente l’importanza dell’esperienza del viaggio, del cammino. Per certi versi potremmo definirti un flâneur?
Respingo completamente e rigorosamente il concetto baudelairiano di flâneur, ripreso da Walter Benjamin e Susan Sontag. Le loro definizioni sono sempre state per me troppo eurocentriche, troppo legate alle loro esperienze e visioni del mondo. La geografia e le specifiche esperienze territoriali regionali sono così varie e diverse, non esiste una dimensione unica per tutte le prospettive.
Preferisco di gran lunga l’idea di vagabondare. Nelle mie foto non c’è alcuna passeggiata o osservazione piacevole. La mia forma specifica di vagabondaggio è un mettersi in ascolto, cercando di entrare in sintonia con l’ambiente circostante. Fotografo le armonie profondamente radicate, le dissonanze, i fili intrecciati così fittamente che sono difficili da discernere nella loro singolarità. Questa forma di vagabondaggio ha molto più a che fare con la caccia e il raduno che non con il passeggio. Lo sguardo antropologico è superato dallo sguardo dei cacciatori, è molto più attento e concentrato. Il cacciatore deve cercare la sua preda, concentrarsi, catturare l’immagine. Il cacciatore agisce in una modalità di sopravvivenza. Ma c’è anche l’aspetto del ritorno e della narrazione della caccia, del tramandare le esperienze. Viviamo idealmente per migliorare e approfondire, profonde armonie che risuonano nel tempo.
In un mondo come il nostro, il tuo è un elogio alla lentezza. Assembli dettagli sorprendenti dalla superficie quotidiana, ritmi vissuti e trame sociali dei luoghi. Prendi parte a quanto sta accadendo.
I nostri corpi fisici sono essenziali. Il nostro respiro, il battito del cuore, il funzionamento completo e armonioso di tutti gli elementi e organi. Tutte queste sono le buone misure che tutti possediamo per dominare il quotidiano. Dal momento stesso della nascita, abbiamo iniziato questo bellissimo viaggio, così singolarmente diverso ma anche molto simile. Senza ornamenti restiamo più o meno essenzialmente gli stessi, muovendoci nel viaggio alla stessa velocità. È questa velocità originale con cui cerco di sintonizzarmi, camminando, girovagando, avanzando sul sentiero della vita terrena fino al giorno dell’ultimo respiro. Molto nel XX secolo, l’accelerazione della vita così come la conosciamo, la macchina, il treno, l’aereo, le enormi navi di lusso, ha distorto, disturbato gravemente il nostro innato senso della velocità. Non pensiamo più alle distanze in giorni e settimane, ma in ore e voli economici, in treni ad alta velocità. Il rallentamento, tornando al ritmo di un tranquillo vagare, consente un ascolto più profondo, per cercare di percepire, di scoprire la costante tessitura e formazione dei fenomeni. Un mantra particolare che adoro ripetere: è nei piccoli avvenimenti che giacciono i segreti della vita quotidiana. Passeggeri che aspettano svogliati alla fermata dell’autobus. Il volo di uccelli migratori in alto nella luce intensa del cielo di primavera.
Molte foto in mostra sono dedicate a Lagos, la città in cui sei nato. Cambia il tuo atteggiamento nel fotografare Lagos o Berlino, la città dove vivi da molti anni e dove hai assistito e documentato i cambiamenti della città dai primi Anni Novanta?
Sono nato nella piccola e iconica città di Oxford, i miei genitori erano studenti della colonia nigeriana. Ho un chiaro ricordo del ritorno a Lagos, in nave mercantile, all’età di quattro anni. Allora era una città relativamente piccola, la capitale della colonia con circa mezzo milione di abitanti. Oggi si dice che ne abbia oltre venti milioni. Questa crescita esponenziale è avvenuta nel corso della mia vita. Al di là del luogo dove mi trovo, cerco sempre di essere me stesso. Lagos, Berlino, San Paolo, Johannesburg, Chicago, Dakar, Londra, Amsterdam, Parigi… la città si impone, si fa avanti con forza con la sua personalità. Le immagini riprese sono spesso intercambiabili, non cerco di documentare la città in quanto tale, cerco piuttosto di vagare per le sue strade. Cerco il mio percorso, la mia narrazione.
I sentieri si incrociano, la serendipity della tessitura, la casualità dei dreadlock, ondeggiando nel tuono alleggerendo il movimento frenetico. La gentrificazione di quartieri un tempo operai, di spazi industriali, l’abbattimento e la ricostruzione di edifici abbandonati fa parte di tutto questo. È un fenomeno comune a molti luoghi. Berlino è cambiata radicalmente da quando il Muro è crollato. Si evolve gradualmente per riprendere il suo posto nell’elenco delle città del mondo che stabiliscono gli standard urbani e di vita. Così per Lagos nel continente africano.
Il tuo lavoro consiste nel creare immagini piuttosto che scattare immagini. Parlaci del tuo approccio al linguaggio fotografico e del significato che il tuo lavoro ha in un panorama artistico sempre più inflazionato dalla fotografia.
Fotografo per arrivare a una comprensione e a un riconoscimento più profondo del mio ambiente. Mi sforzo di cedere, di ascoltare gli accordi e le armonie finemente sintonizzati. Le configurazioni dipendono molto da chi sta raccontando la storia.
Il linguaggio fotografico è spesso ingannevole, riflette i pregiudizi e la visione limitata di coloro che si sforzano di rappresentare. La visione eurocentrica ne è un chiaro esempio. Ciò che conta essenzialmente è il margine di profitto, le immagini, le fotografie, viste come oggetti di scena in questo sforzo generale. Nel vagare cerco consapevolmente di minare questo disprezzo, questo tentativo di soggiogare e negare l’altro, di ridurlo a essere un prodotto usa e getta, malato, disumano. Non è la fotografia a essere inflazionata ma piuttosto la mentalità di molti di noi, intenti a perseguire ulteriormente l’agenda disumanizzante, riducendo gli altri a essere quasi invisibili, senza alcuna narrazione udibile. Ascolta, però, e puoi sentire i loro cori, che ondeggiano e oscillano nelle correnti d’aria, formandosi ed evolvendosi in momenti di casualità in immagini potenti, fili che letteralmente si annodano in configurazioni che risuonano ed echeggiano.
‒ Angela Madesani
Berlino // fino al 19 luglio 2020
Akinbode Akinbiyi. Six Songs, Swirling Gracefully in the Taut Air
GROPIUS BAU
Niederkirchnerstraße 7
https://www.berlinerfestspiele.de/en/gropiusbau/programm/2020/akinbode-akinbiyi/wandtexte.html
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati