Ricordo di Cecilia Mangini. Con una intervista inedita
Scomparsa pochi giorni fa, Cecilia Mangini è stata fra le primissime documentariste italiane. Qui trovate una intervista inedita realizzata nel 2018.
Nell’ottobre del 2018 una giovane studentessa dell’Accademia di Belle Arti decide di iniziare il tirocinio in un archivio. Non si era mai interessata alla politica, all’attualità, se non strettamente collegata al mondo dell’arte, campo dei suoi studi. Inizia un tirocinio presso l’Archivio del Movimento Operaio e Democratico – sembrava un nome così astratto – ma, fascicolo dopo fascicolo e pellicola dopo pellicola, nel suo lavoro di digitalizzazione si imbatte in diversi personaggi. Ancora non sapeva che quell’esperienza le avrebbe cambiato la vita. Incontra in un filmato il significato politico del nascere donna, dell’Essere Donne in una pellicola di Cecilia Mangini (1927-2021).
A Cecilia devo molto, anche se non l’ha mai saputo. Ho avuto modo di vederla la prima e ultima volta questa estate e il suo ricordo sarà indelebile nella mia mente: un fuscello, era sorretta da Pisanello, regista che ha collaborato con lei al suo ultimo film, ma allo stesso tempo una forza della natura. A 93 anni ancora aveva voglia di studiare, imparare e riflettere.
L’ho vista, ascoltata, mi sono commossa e non ho avuto il coraggio di andarla a ringraziare, l’ho voluto tenere per me, un po’ per vigliaccheria e un po’ per timidezza. Lei non lo ha mai saputo ma ha contribuito al mio essere donna, mi ha aiutato a comprendere le contraddizioni della realtà quotidiana tra politica, corpo, immagini in movimento e femminismo (termine non amato dalla regista).
Ho pensato che queste parole, che hanno cambiato la mia vita, andassero condivise.
L’INTERVISTA CON CECILIA MANGINI
Essere donne è un film che racconta la condizione femminile della donna. Il film si apre con la visione smagliante di attrici e modelle in technicolor, figlie della società dei consumi, per accostare poi queste immagini alle più comuni e vere donne lavoratrici. Da dove nacque la necessità di realizzare un tale documentario?
Ecco i fatti: Luciana Castellina mi convoca a Via Botteghe Oscure, la mitica sede del PCI, e non riesco a capire perché: non sono iscritta al Partito Comunista, avere cofirmato la regia di All’armi siam fascisti mi ha catalogato schierata con i socialisti e non è vero, in realtà sono una anarchica, ma le altre due donne registe sono Lina Wertmuller, che non è né di destra né di sinistra, e Liliana Cavani, che ha esordito come giornalista sull’Osservatore Romano, il quotidiano edito nella Città del Vaticano. Luciana Castellina è di una bellezza luminosa, è aperta, simpatica, diretta, e non perde tempo a dirmi che vuole affidarmi un documentario sulle donne che lavorano. Resto senza fiato, sballottata tra la felicità e il dubbio: che libertà avrò? Che limiti ci sono? Glielo chiedo a cuore stretto e lei mi promette tutta la libertà che voglio. Mantiene la parola perfino nel momento in cui punto i piedi per il testo da affidare a Felice Chilanti: per un principio analogo alle quote rose è dato per scontato che il commento sia scritto da una donna, tra me e lei tutto resta a livello di una discussione e Felice Chilanti sarà il valore aggiunto all’universo dell’essere donna che lavora.
Il film è stato definito come uno dei più bei documentari che siano mai stati realizzati sulla condizione femminile. Autorevolmente premiato all’estero ma non in Italia a causa del diniego del visto per la programmazione obbligatoria. Come ha reagito alla censura indiretta del film?
Per la legge di quel tempo, i documentari erano esaminati da una commissione dei premi di qualità composta in maggioranza assoluta da membri iscritti o fedelissimi alla Democrazia Cristiana, che ne esaminava le qualità tecniche e artistiche, e come tutti gli spettacoli dovevano affrontare la revisione del visto di censura. A decidere che Essere donne non aveva qualità né tecniche né artistiche era stata una commissione presieduta da Piero Regnoli, ex critico dell’Osservatore Romano, sceneggiatore di Bellezze in motoscooter e regista del film erotico-macabro Il sangue del vampiro, ironicamente soprannominato il “pornovampirologo”. Il paradosso è stato che nel 1964 al festival di Lipsia Joris Ivens, John Grierson (celebri documentaristi) e Jerzy Toepliz (grandissimo teorico del cinema) avevano conferito a Essere donne il Premio Speciale per la Regia, mentre pochi mesi dopo in Italia lo stesso Essere donne veniva giudicato privo di qualsiasi qualità. Invece Essere donne aveva ottenuto il visto di censura, uno scudo protettivo grazie al quale ha iniziato il percorso di documentario più proiettato nel nostro Paese, praticamente senza interruzioni a partire dal 1965. È un “sempreverde”, proiettato in tutta Italia da una elezione politica o amministrativa all’altra; di anno in anno, ha festeggiato l’8 marzo; dal 2000 in poi è rispuntato un po’ dovunque nelle rassegne e nei festival italiani; all’estero è stato programmato con la mia personale nel 2011 al Festival des Femmes a Créteil-Parigi, nel 2012 a Barcellona, nel 2014 nel Canada a Montréal e Québec, due anni fa è approdato anche in Asia, a Teheran e nella Corea del Sud.
SULLA MERCIFICAZIONE DELLA DONNA
Un tempo, determinati elementi considerati non confacenti alla morale pubblica venivano censurati. Oggi elementi quali la sessualizzazione-reificazione estrema della donna e la mercificazione di corpi sia femminili che maschili hanno cambiato completamente ruolo, venendo morbosamente mostrati e utilizzati a scopo pubblicitario, se non politico. La censura cinematografica istituzionale in tal senso che ruolo può avere?
Nel suo bellissimo documentario Il corpo delle donne del 2009, Lorella Zanardo accusa le donne di mercificazione di se stesse, e le immagini di quelle nudità esibite, di quei glutei sbattuti contro l’obiettivo, di seni, capezzoli e ombelichi evidenziati da brillantini e dorature a imitazione sfacciata dell’abbigliamento dei bordelli, quel loro ridursi solo a corpi per fare carriera, per apparire in televisione o su Internet, per ricevere regali di prestigio o, fondo dell’abisso, fare sesso in cambio di denaro, tutto questo è mercificazione. La morale cristiana, che ha radici sessuofobiche fortissime, lo sostiene da due millenni, allineando santi che hanno teorizzato l’ostracismo sessuofobico, da San Paolo a San Luigi: per secoli questa morale ha insegnato ai suoi fedeli a punire il corpo camminando a piedi nudi nelle processioni, flagellandosi a sangue, privandosi del cibo. Dichiarata dottore della Chiesa, patrona dell’Italia e compatrona dell’Europa, Santa Caterina da Siena è morta per anoressia. Questa morale sessuofobica è diventata uno dei pilastri del maschilismo, sfido io, serviva a mettere al guinzaglio il comportamento femminile. Fino a pochi decenni fa, in Italia il marito poteva uccidere la moglie che lo avesse tradito scontando solo due anni di prigione. Il suo delitto era “d’onore”. Se la moglie uccideva suo marito fedifrago era condannata all’ergastolo. Se una ragazza veniva violentata, bastava che il violentatore offrisse il matrimonio riparatore per rimanere impunito. Se non lo offriva, non rischiava molto, era lei una scostumata che lo aveva indotto in tentazione. Tutto questo a dimostrazione che la morale sessuofobica è esorbitata dall’etica ed è diventata la nostra guida culturale. Senza che ce ne accorgessimo. Per la cultura e la morale sessuofobica, disporre liberamente del proprio corpo è mercificazione. Anche Zanardo ne è convinta: parla di volgarità, di ignoranza, di incultura, di manifestazioni rozze e ripetute maniacalmente per l’incapacità mentale di sottrarsi a modelli di bassa povertà culturale. Ma la mercificazione è un’altra cosa. Pensiamo un attimo ai meravigliosi nudi femminili della pittura italiana dal 1400 in poi, fino ai giorni nostri (durante il Medioevo solo Eva, la peccatrice rovina dell’umanità, poteva essere raffigurata nuda, a riprova che nudità e peccato sono un tutto inscindibile): i nudi di Tiziano e Tintoretto e Tiepolo e Manet e Modigliani, quando li guardiamo, sono un inno alla femminilità. Infine, per i vetero-valori moralistici la prostituta rappresenta il massimo della mercificazione: al polo opposto c’è la vergine-madre. È il sesso l’origine di tutti i mali, è il corpo delle donne un concentrato di lussuria demoniaca. Quello dell’uomo di lussuria umana. Questo non da ieri: violentata da Tarquinio il Superbo, Lucrezia si toglie la vita trafiggendosi con un pugnale, lei, vittima da risarcire, si deve punire perché il suo corpo profanabile è stato “profanato”. In breve: l’idea della purezza carnale è una sovrapposizione culturale che abbiamo introiettato e accettato da millenni e da cui sarà lento e difficile liberarsi. Ma almeno cominciamo a farlo.
Allora la mercificazione non esiste?
Esiste: si ha mercificazione quando donne e uomini usano il loro sesso per avere in cambio incarichi, prebende e titoli non dovuti, peggio ancora per diventare deputato, senatore o ministro senza averne le qualifiche indispensabili. È mercificazione quando ci si appropria indebitamente – versione scivolosa di “si ruba” – del denaro pubblico, del denaro versato con le tasse da tutti i cittadini e finalizzato al bene di tutti i cittadini. Ecco perché ritengo orribile la mercificazione, chi la usa a suoi fini personali danneggia milioni di persone.
Lei è stata una delle prime registe donne insieme ad Agnès Varda. In che rapporti era con la regista francese e quanto è stato difficile per una donna affermarsi come regista in quegli anni?
Ho conosciuto Agnès Varda a Cinema del reale, la bella manifestazione cinematografica organizzata in Salento da Paolo Pisanelli. Abbiamo parlato a lungo discutendo dei problemi, delle difficoltà e della gioia di girare dei documentari: Pisanelli conserva la sua registrazione. Il cinema deve molto alla genialità di Agnès, alla sua presenza come personaggio che si racconta ed è focus centrale dei suoi lavori. Che io sia stata una delle prime registe donne in Italia è un fake che mi ha avvantaggiato. La primissima regista donna in Italia è stata Francesca Bertini, che non si limitava al suo ruolo di protagonista. Lo riconosce onestamente Gustavo Serena, suo marito, che ha firmato tutti i suoi film come regista: “E chi poteva fermarla? La Bertini era così esaltata dal fatto di interpretare il ruolo di Assunta Spina, che era diventata un vulcano di idee, di iniziative, di suggerimenti. In perfetto dialetto napoletano, organizzava, comandava, spostava le comparse, il punto di vista, l’angolazione della macchina da presa; e se non era convinta di una certa scena, pretendeva di rifarla secondo le sue vedute”.
Gli Anni Sessanta sono il periodo in cui si afferma come regista. Considerato nel suo complesso, il femminismo ha costituito la sfida forse più radicale al pensiero occidentale e alla cultura patriarcale della società capitalista; la sua storia tuttavia si lega a una pluralità di prospettive e di azioni eterogenee che hanno generato e continuano tuttora a generare intensi dibattiti. In ambito artistico si assiste a un’analoga molteplicità di pratiche, di forme e di media adottati. Lei accennava al fatto di porsi in una posizione antitetica alle attuali tendenze di un femminismo che non condivide. Come definirebbe il suo “femminismo”?
Antitetica di certo: ritengo che le quote rosa siano vergognose, una dichiarazione disonorevole di incapacità. Il mio “femminismo” non esiste. Il femminismo non è neppure una parte per il tutto. Esistono le persone, l’insieme degli esseri umani, gli animali, le piante, gli insetti, tutto ciò che è vivo, che pensa, intuisce e sente. Quando mi capita di comunicare con l’insieme di tutte le persone riesco ad allargare e arricchire il mio orizzonte. Aggiungo che dei tre mots d’ordres della rivoluzione francese Liberté, fraternité, égalité il più importante è égalité, l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, uomini, donne, omosessuali, lesbiche, transgender. È partendo dal concetto dell’égalité che il giovane Karl Marx e Friedrich Engels hanno scritto Il Manifesto del Partito Comunista.
– Martina Trocano
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