La luna e il bambù. Le fotografie di Olmo Amato a Roma
Ultime ore per visitare la mostra fotografica di Olmo Amato, allestita fino al 13 febbraio presso la Galleria 28 a Piazza di Pietra, a Roma.
Quando si è davanti a un’opera d’arte che veramente centra il bersaglio si percepisce come una sorta di imbarazzo, di nervosismo galoppante. Cosa si può aggiungere con le parole a ciò che l’artista ha già reso in maniera calzante grazie all’immagine? Potremmo raccontarvi una storia, quella della carta washi che si è lasciata impressionare a inchiostro dalle fotografie di Olmo Amato (Roma, 1986) con un’immagine dai contorni frastagliati in un’apparenza romantica e retrò. Un timbro compare sotto ogni fotografia, è la firma in ideogrammi giapponesi dell’artista che ci spiega: “In Giappone ci sono tre alfabeti. Due sono fonetici, a ogni segno è associato un suono. Hiragana per le parole giapponesi, katakana per le parole straniere. Poi ci sono i kanji, l’alfabeto di derivazione cinese. A ogni simbolo corrisponde sia un suono che un significato. Il timbro in Giappone è usato come firma ufficiale per tutti i documenti. Io ne ho fatto realizzare uno con il mio cognome in kanji. A seconda dei kanji che usi si crea un significato diverso. La mia compagna giapponese e suo padre hanno scelto i kanji più adatti. Tra cui quelli della foresta sacra“.
LA MOSTRA DI OLMO AMATO A ROMA
La luna e il bambù si ispira alla favola di Taketori Monogatari (Storia di un tagliabambù) o anche Kaguya Hime (Principessa Splendente). Un vecchio contadino, recidendo un culmo, trova una graziosa creatura e decide di prendersi cura di lei, la piccola cresce a velocità vertiginosa fino a diventare una bellissima donna, una vera e propria principessa. La pianta inoltre fornisce al tagliabambù tutte le risorse per renderla tale e spostarsi in un palazzo signorile in città. Eppure Kaguya è legata alla semplicità della vita rurale e rifiuta pretendenti altolocati, desiderosi di sposarla per le leggendarie voci sul suo raro splendore. La ragazza invoca così l’aiuto della luna per salvare la sua indipendenza, riscoprendosi figlia dell’astro. Si tratta infine di un ritorno a casa. L’artista ha eletto la tecnica del fotomontaggio come suo impasto linguistico ed espressivo. Partendo da alcuni scatti, realizzati nella foresta di bambù vicino a Kyoto durante i viaggi in Giappone ‒ nei quali è il luogo, con il suo richiamo e la suo eco, a essere l’assoluto protagonista ‒, Amato inserisce digitalmente una figura femminile.
I personaggi che popolano le sue fotografie sono quindi il frutto di una ricerca tra numerose foto d’archivio, negativi e albumine colorate a mano, realizzate negli studi fotografici alla fine dell’Ottocento, soprattutto da Felice Beato e Adolfo Farsari, testimonianza della moda dell’Oriente e del famelico desiderio degli occidentali di carpire tradizioni lontane e dal fascino inenarrabile. Il risultato delle pose era spesso una figura irrigidita nel suo costume, immobile in un ambiente fittizio, costruito e sterile. Amato crea così una sovrapposizione spazio-temporale, un incontro possibile a distanza di un secolo, un’intimità visiva da ammirare in punta di piedi.
AMATO E IL GIAPPONE
Un’installazione ambientale aspetta il pubblico nel vano inferiore, dove, tra reperti archeologici pertinenti al tempio di Adriano, viene avvolto nella penombra e calato proprio nel cuore della foresta di bambù. I bagliori della luna colpiscono una sorgente, creando onde luminose e spettrali. Dei bambini intonano canti, si avverte un fruscio di foglie leggero e il richiamo di uccelli notturni.
Tra i canneti di bambù, la luce fa capolino e filtra tra le fitte palizzate, un’immagine talmente poetica da spingere i giapponesi a creare un termine apposito: “Komorebi”, la luce che filtra tra le fronde, tra le chiome degli alberi. Quest’espressione si plasma grazie all’unione di tre parole: 木 ki, albero, 漏れ more, da 漏れる moreru, perdere, gocciolare, e infine 日 hi, sole, in questo caso per esteso “luce“. L’artista rende magnificamente la sensazione dello stillare del chiaro di luna tra le fessure della foresta, tanto che sembra di esservi immersi, di poter percepire l’umidità, la seta e il fruscio dei kimono delle donne che si avventurano nel bosco, si bagnano negli specchi d’acqua, alzano gli occhi al cielo o suonano lo shamisen, mentre un cerbiatto dal passo impercettibile si avvicina, incuriosito dalla melodia.
‒ Giorgia Basili
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati