Pianosa, l’isola che era un carcere

Proseguono i racconti per immagini della fotografa Silvia Camporesi. Stavolta la destinazione è l’isola di Pianosa, a pochi chilometri dall’Elba. Carcere di massima sicurezza fino al 1998, oggi è pressoché abbandonata, ma carica di memoria.

Pianosa, Planasia in latino, ex colonia romana, giace, con i sui 10 chilometri quadrati, non molto distante dall’isola d’Elba, e per raggiungerla è necessario prendere un traghetto dalla Toscana all’Elba, attraversare l’Elba fino alla costa ovest e poi salire su un ulteriore traghetto per attraccare finalmente al piccolo porticciolo in stile moresco.
È un viaggio che confonde, ci vogliono diverse ore fra uno scalo e l’altro, e fra un traghetto e l’altro non è facile ricordarsi bene dove ci si trovi ma, quando si arriva, la prima luminosa vista ripaga lo straniamento provato. Pianosa la conoscono in pochi, anche perché la sua curiosa storia l’ha messa per decenni al riparo dal turismo. Nel 1856 viene costruito un grande edificio capace di ospitare 350 detenuti e l’isola si trasforma in una colonia penale. Dal 1974 l’edificio diviene un carcere di massima sicurezza per camorristi e membri delle Brigate Rosse e a sigillo di questa funzione viene costruito un enorme muro lungo 3 chilometri e alto 6 metri, un mostro di cemento armato visibile in lontananza, dal mare. Ma gli alti costi di gestione del carcere ne decretano la chiusura nel 1998.
Oggi Pianosa è un’isola con un enorme carcere e un piccolo paese entrambi abbandonati; per il resto è un meraviglioso parco naturale preservato da tutto. Ci vivono ancora alcuni detenuti in regime speciale, i quali si occupano della manutenzione degli edifici e della coltivazione dei campi.

Silvia Camporesi, Planasia #83, Isola di Pianosa, 2014. Courtesy Silvia Camporesi

Silvia Camporesi, Planasia #83, Isola di Pianosa, 2014. Courtesy Silvia Camporesi

PIANOSA FOTOGRAFATA DA SILVIA CAMPORESI

Nel 2014 ho ricevuto una committenza dal festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia e, accompagnata da una guardia penitenziaria, ho avuto modo di visitare più volte il paesino e il carcere. La prima volta sono arrivata in inverno, andata e ritorno in giornata, con il traghetto di linea. Il tempo di visitare velocemente il paese, notare la fatiscente scritta “farmacia” e un telefono a gettoni arancione, oltre a qualche detenuto in tuta da lavoro che si occupava di lavori di manutenzione. La seconda volta, un mese dopo, sono rimasta diversi giorni. Una valigia piena di cibo e acqua, perché come è ovvio sull’isola non c’è motivo perché vi sia un alimentari. Dormivo nella foresteria del comando forestale. La prima visita al carcere è qualcosa di incredibile: un’isola così piccola che contiene un severo edificio così grande, a dir poco sovradimensionato. Con il mio accompagnatore giro per i corridoi, le celle, apro porte, chiudo portoni, attraverso cortili. Mi colpiscono gli armadietti dei detenuti, ricoperti di poster con donne nude e adesivi che riconosco essere rigorosamente riferiti a fine Anni Ottanta. Quegli interni freddi e abbandonati, con poca luce che entra a riquadri dalle grate delle finestre, quei corridoi con i muri scrostati verdi e azzurri, si scontrano con la bellezza rigogliosa della natura al di fuori. In una stanza, quella della ricreazione, c’è un biliardino, in un’altra vedo un letto di ferro e le divise dei carcerati incrostate dalla polvere e dal freddo. Continuiamo a camminare, mi sembra di aver percorso chilometri e ci troviamo in quella che era la mensa: pentoloni enormi ammassati perfettamente come in un quadro di Morandi, fermi e impolverati sotto il fascio di luce del mezzogiorno. Mi sembra incredibile essere l’unica persona a poter fotografare quella scena. Poi oltre, passano le ore dentro a quel labirinto di corridoi e celle, attraversiamo un punto in cui il soffitto è crollato, ma non mi preoccupo, tanto sono elettrizzata dall’essere lì. In quel percorso non mio accorgo di perdere il mio accompagnatore, sto camminando sola, fra stanze e cortili interni, sono quasi tutti vuoti, o contengono pochissimi oggetti. D’improvviso mi trovo in un enorme stanzone dove sono riversati migliaia di documenti, cartelline di colore rosa, appunti: tutto l’archivio cartaceo dei tanti detenuti. Quaxlcosa evidentemente sfuggito alla pulizia generale. Non aspetto il mio accompagnatore e cerco il punto di vista che mi sembra perfetto per includere più materiale possibile. Ci sono i nomi, le date, ed è indubbiamente un pezzo di storia della criminalità italiana. Quando il mio accompagnatore mi raggiunge rimane lui stesso stupito, non conosceva l’esistenza di quella stanza rimasta evidentemente intoccata dal ’98.
La sera il porticciolo è illuminato, grossi pesci nuotano indisturbati in superficie e c’è un silenzio irreale. Di notte è freddissimo e per scaldarmi uso tutte le coperte che trovo nella foresteria.

Silvia Camporesi, Planasia #14, Isola di Pianosa, 2014. Courtesy Silvia Camporesi

Silvia Camporesi, Planasia #14, Isola di Pianosa, 2014. Courtesy Silvia Camporesi

IL PAESE E IL MARE

La mattina dopo la dedico all’esplorazione del paese, entro in una casa diroccata, la cui finestra si affaccia direttamente sul mare. Mare e macerie. Poi è la volta della scuola, c’è una vecchia carta geografica dell’America, ci sono libri sparsi, trovo riferimenti alla Pasqua e per terra è caduta la letterina di una bambina che scrive al padre: “Se fossi una maga ti regalerei la felicità, ma sono solo la tua Selene che ti vuole tanto bene”. Chissà quanti anni ha oggi Selene.
Visito infine il cimitero dei detenuti che sono morti sull’isola e il cimitero degli abitanti dell’isola.
Su tutto svetta l’enorme muro di cemento armato che stona visibilmente con il senso di libertà offerto dall’isola. Il giorno previsto per il rientro il mare è in burrasca e la nave di linea che sto aspettando con il mio bagaglio al seguito è evidente che non arriverà. La prossima nave è prevista fra una settimana. Il piano di emergenza contemplato dal mio accompagnatore è salire con i detenuti che andranno a processo in Toscana, sulla vedetta della polizia penitenziaria, ed è l’unica soluzione per tornare casa. Mi ritrovo quindi seduta in una piccola imbarcazione, con sette detenuti, in mezzo a un mare in burrasca, ma nessuno pare spaventato dalla situazione anche se c’è chi sta male, chi si tiene stretto per non cadere dal sedile, mentre io mi metto di fianco al capitano e provo a intessere una conversazione per non farmi prendere dal panico e ritrovare un senso di normalità. Mentre si destreggia fra le onde, il capitano mi racconta che uno dei detenuti che deve essere processato è un omicida, ha ucciso la madre. È il ragazzo giovane e sorridente che avevo notato appena salita. Nel tempo record di quarantacinque minuti arriviamo all’Elba, il cielo è sereno, saluto i miei compagni di viaggio e riparto per la terraferma. Pianosa è un puntino lontano perso in mezzo al mare.

‒ Silvia Camporesi

www.silviacamporesi.it

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Silvia Camporesi

Silvia Camporesi

Silvia Camporesi (nata a Forlì nel 1973), laureata in filosofia, vive a Forlì. Attraverso i linguaggi della fotografia e del video costruisce racconti che traggono spunto dal mito, dalla letteratura, dalle religioni e dalla vita reale. Negli ultimi anni la…

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