L’Italia del lockdown nelle fotografie di Silvia Camporesi
Incaricata dall’allora MiBACT, durante il primo lockdown, ad aprile 2020, la fotografa Silvia Camporesi ha documentato la desolazione dei luoghi a lei cari. Ecco il racconto.
Aprile 2020, pieno lockdown. Citando Battiato, “erano giorni di stanchezza assurda e depressiva”, data dall’impossibilità di uscire. In questa desolazione spazio-temporale il regalo più grande arriva sotto forma di mail dall’allora MiBACT, in cui mi viene chiesto di uscire a fotografare “l’Italia in silenzio”, verrò pagata per questo, e soprattutto avrò una liberatoria rilasciata dal Ministero. Dopo una rapida ricognizione penso a quali luoghi vorrei restituire in fotografia, cosa far vedere, cosa ha senso mostrare. Penso ai luoghi della mia infanzia, al mare e alle montagne, che in questi mesi di primo sole sarebbero stati affollatissimi di gente che saluta l’arrivo della bella stagione. Tutti quei luoghi che non ho memoria di aver visto privi di umanità. Parto dal mare, da Cesenatico, per scendere lungo la costa fino a Lido di Classe.
DA CESENATICO A LUGO DI ROMAGNA
L’ingresso della spiaggia libera si apre con un emblematico cartello con la scritta “passaggio”, unico varco rimasto aperto per vedere il mare desolato. A Cesenatico il porto canale sembra lo scenario di un film concluso, l’ultimo ciak è terminato e attori e operatori se ne sono andati. L’impressione è di essere osservati da qualcuno che io non riesco a vedere, e anche il Grand Hotel è piuttosto spettrale nel suo immenso vuoto di finestre chiuse. La strada Adriatica che a volte lascio per seguire il litorale è completamente vuota, non c’è nemmeno una pattuglia a fermarmi, perché forse a questo punto del lockdown sono stanchi pure loro, chiunque ha capito che non si deve uscire di casa senza un valido motivo e quindi non c’è quasi nessuno da controllare. Vorrei esibire la mia liberatoria, ma non ho motivi per farlo. A Cervia c’è vento, la spiaggia libera è piena di dune scolpite, oggi sarebbe un giorno da passeggiata, ma è impressionante come nessuna impronta sia stampata sul manto sabbioso. Una distesa di deserto caldo, non vorrei “macchiarlo” con le mie impronte, ma poi lo faccio come fossi il primo umano sulla superficie lunare. A Lido di Classe attraverso una parte di pineta, ma poi il silenzio estremo mi spaventa e torno indietro. Raggiungo una cittadina dell’interno, Lugo di Romagna. C’è una piazzetta con in fondo una giostra chiusa. Immagino la piazza piena di gente, di bambini che gridano, di mamme che chiacchierano. Ma ovviamente non c’è nulla di tutto questo, e mi colpisce l’italianità della composizione in cui la giostra si incastra perfettamente fra le targhe di marmo dedicate a Mazzini e Garibaldi.
DALLA MONTAGNA A FORLÌ
Il giorno dopo raggiungo le zone di montagna, puntando verso le foreste casentinesi, luogo di confine fra la Romagna e la Toscana. Dalla fine dell’ultimo comune fino all’ingresso dei boschi non incontro nessuno per interi chilometri, passo davanti al chiosco dei panini che oggi, giorno festivo, sarebbe affollatissimo di motociclisti, le serrande sono chiuse, le sedie inclinate sui tavoli, nessun segno di vita, solo una foresta rigogliosa entro cui addentrarsi. Guidando lungo la strada che attraversa il bosco incontro una famiglia di daini, camminano lenti, si fermano a guardarmi con sguardo sorpreso e poi ripartono per la loro strada.
Torno nella mia città, Forlì, e davanti al museo che ora ospita la mostra dedicata a Ulisse si erge un grande cavallo bianco stilizzato. In tempi di mostre da botteghino la fila di gente occuperebbe parte del piazzale, ma ovviamente il museo è chiuso e il piazzale è rimasto deserto, la storia si ripete, la bellezza del vuoto si scontra con le difficoltà degli stati d’animo, anche la cultura si è dovuta fermare.
PARCHI E SILENZIO
L’ultima tappa la dedico ai parchi della mia città e quel che mi colpisce sono i nastri da cantiere con cui sono fasciati gli attrezzi ginnici, i giochi per bambini e le porte dei campi da calcio. Mi chiedo che bisogno ci sia di sottolineare quel che è già dichiarato in ogni modo possibile, ma evidentemente è necessario farlo, per evitare che qualche sprovveduto si metta a fare fatica calciando un pallone o arrampicandosi su qualche attrezzo. Evitare i contatti il più possibile, evitare di uscire. È fine aprile, fra qualche giorno si tornerà a respirare all’aperto, fra qualche giorno l’incubo degli “arresti domiciliari” finirà e si potrà tornare ‒ forse ‒ alla vita di prima. Uscendo dal parco un carabiniere mi ferma e mi chiede perché non sono a casa. Gli mostro orgogliosamente la liberatoria firmata dal Ministero e gli dico con solennità che sto lavorando per il MiBACT. Lui la guarda stanco e mi dice: “Torni a casa”.
‒ Silvia Camporesi
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