Natura, uomo e calamità. Parla la fotografa Marina Caneve
È una ricerca che guarda all’ambiente e all’impatto dell’uomo su di esso quella intrapresa dalla fotografa Marina Caneve, che qui racconta i suoi progetti.
Marina Caneve (Belluno, 1988) compie analisi dettagliate del luogo, attraverso il linguaggio fotografico, strumento e non fine per dare vita a complesse indagini di matrice interdisciplinare, in cui l’aspetto estetico occupa, tuttavia, un ruolo determinante. Le abbiamo chiesto di raccontarci della sua formazione, delle sue modalità di ricerca.
Come e da dove hai iniziato?
Ho iniziato il mio percorso nella fotografia con Guido Guidi allo IUAV di Venezia; quell’esperienza mi ha trasmesso una fascinazione per la fotografia, oltre che una predisposizione al guardare, all’aspettare e all’incappare nell’inaspettato e a volte nell’errore.
Successivamente ho studiato all’ECAL in Svizzera e poi alla Royal Academy of Arts in Olanda, in seguito ho preso parte a una lunga serie di masterclass.
E oggi?
Oggi insegno al Master IUAV in Photography e a Spazio Labò a Bologna. In questo momento sto tornando a casa dopo aver tenuto un modulo di fotografia per gli studenti della AHO ‒ Oslo School of Architecture and Design che mi ha fatto molto riflettere sulle origini della mia pratica e sulle domande che mi ponevo quando, studentessa di architettura, iniziavo a interrogarmi sulle possibilità e l’autonomia della fotografia come strumento conoscitivo ed esplorativo delle condizioni ‒ geografiche, culturali e sociali ‒ che influenzano la nostra esistenza nell’ambiente. Le costanti che mi accompagnano sono la questione della conoscenza veicolata dalla fotografia, la relazione tra fotografia e ricerca, la memoria, l’ambiente geografico-culturale, la vulnerabilità.
A oggi la mia pratica si sviluppa attraverso un approccio multidisciplinare basato sulla ricerca e il mio processo di lavoro si muove dalla fonte al poema, al ritmo, fino allo spettatore, confrontandosi con diverse prospettive, dal vernacolare-naïve al tecnologico-scientifico.
NATURA E FOTOGRAFIA
Mi pare che Motherboard – Le voci si contraddicono, Vajont (2013-ongoing) sia una riflessione particolarmente contemporanea: la natura che, attraverso la catastrofe, si rimpossessa dei suoi spazi.
Il lavoro è nato in seguito alla fondazione, insieme a Gianpaolo Arena, del progetto CALAMITA/À. CALAMITA/À e fa riferimento non solo alla questione della catastrofe (calamità) ma anche alla relazione attrattiva esistente tra la nostra società e le catastrofi (calamita) e affronta il tema sia a livello site specific nell’area del Vajont, con il lavoro di artisti internazionali che operano con diverse pratiche e modalità, sia a livello culturale con interviste, saggi e progetti educativi. È un progetto attraverso il quale ho iniziato a pormi delle domande, come per esempio se una fotografia pacata, disincantata, empatica ma mai pietistica, potesse essere diversamente efficace rispetto alle immagini di distruzione per avvicinarci a tematiche complesse come lo sfruttamento dell’ambiente e le sue drammatiche conseguenze sulle persone che lo abitano.
Che cosa conta per te?
Quello che è importante per me è naturalmente l’evento in sé, ma ancor più la rete di condizioni che hanno portato al suo accadimento e al suo sviluppo successivo, forse ancor più cupo. Attraverso questo progetto ho avuto l’opportunità di iniziare una riflessione sull’immagine traumatica, traumatizzante, la spettacolarizzazione del dolore e del disastro. Mi sono chiesta se fosse possibile, attraverso immagini pacate, evocare la gravità di un evento e attraverso segnali ben precisi restituirne una parte della complessità.
Al tempo stesso ho cominciato a realizzare quanto la nostra conoscenza possa risultare precaria e le voci che ci danno informazioni contraddittorie. Sto portando avanti sempre più il progetto in questa direzione. A oggi ne fanno parte anche una serie di immagini-testo e oggetti d’archivio.
La natura è protagonista anche di Bridges are beautiful (2015-ongoing). La tua è sempre una natura antropizzata, dove io leggo una sorta di disagio, di imbarazzo. Per quel lavoro citi la voce Utopia di Delio Cantimori, pubblicata sull’Enciclopedia Treccani nel 1937.
Nello specifico la voce cita: “Ma le utopie più diffuse ai giorni nostri sono quelle di una riorganizzazione pacifica dell’Europa o del mondo (..)”, forse è questo il grande disagio con cui
mi trovo a confrontarmi. Trovo la questione estremamente affascinante perché mette in luce una serie di paradossi che vanno dalla natura alle strutture di potere alla geopolitica.
Il mio lavoro prende come riferimento la rete ecologica Natura 2000 per ragionare sulla presenza dell’uomo nei confronti della natura. La rete è costituita da una serie di corridoi ecologici promossi dall’Unione Europea, creati per preservare la fauna, la flora e la biodiversità. È un sistema di comunicazione transnazionale che va oltre le politiche di confine di ogni Stato, e mette al primo posto il pensiero ecologico. I ponti sono alcune delle infrastrutture più importanti della rete poiché facilitano il superamento delle barriere architettoniche da parte degli animali. Allo stesso tempo, recinzioni e telecamere di sicurezza dirigono, monitorano e seguono i loro movimenti, mettendo in dubbio la loro apparente libertà di movimento.
A quali conclusioni sei giunta?
Lavorare su questa grande infrastruttura, con le sue contraddizioni, mi induce sempre più ad approfondire la ricerca sulle strutture che governano questo spazio che noi, uomini, abbiamo disegnato per gli animali. Analizzando questa infrastruttura, i confini tra noi e loro – gli animali ‒ diventano sempre più labili. In qualche modo trovo che si palesi anche una sorta di distopia, e forse è proprio lì che tu leggi il mio imbarazzo.
CITTÀ E MONTAGNA
1 Km del 2012 è un lavoro su una piccola zona del territorio francese. L’abitazione, l’uomo, la natura. Vogliamo entrare nel vivo del dibattito su cui si è mossa già molta fotografia? Perché hai sentito l’esigenza di ritornarvi?
1 Km è il primo progetto che ho realizzato nella mia carriera e, come hai ben intuito, nasceva da una riflessione sul ruolo e le possibilità delle campagne fotografiche di natura territoriale, studiando gli esempi illustri.
Mi chiedevo se e con quali modalità la fotografia potesse partecipare a un processo di costruzione di conoscenza rispetto alle indagini urbane e alle riflessioni con cui l’urbanistica contemporanea si stava confrontando. Nel caso specifico La Caravelle, un complesso che con i suoi blocchi copre 1 km lineare di superficie, è stato un punto di indagine eccezionale avendo una storia che ha strettamente a che vedere con la necessità della costruzione di un punto di vista e di relazioni visive tra uomo, edificio e città.
Manifesto frammentario della città di Venezia in realtà non è un lavoro su Venezia. Qui siamo in Puglia. Rifletti sul destino delle nostre città, sulla loro vulnerabilità, ma anche sulla banale rappresentazione delle stesse. Qui è una sorta di affresco di dubbio gusto, ma il mondo dei social in cui siamo immersi come nelle sabbie mobili è ancora più banalizzante.
Recentemente ho lavorato a un progetto per il Museo della Montagna di Torino, Entre Chien et Loup, che parte dagli stessi presupposti, e forse in fondo è lo stesso progetto anche se il territorio a cui fa riferimento, la montagna, il Cervino, potrebbe sembrare diametralmente opposto. Entrambi i progetti lavorano sui codici visivi che rendono le cose riconoscibili per come la nostra cultura – occidentale – ci ha insegnato non solo a dare per assimilate, ma ancor più a desiderarle.
Il commercio e la vendita sono, in effetti, ciò a cui fanno riferimento le immagini intorno alle quali ruota la logica dei social; in questi lavori solco il limite tra i nostri desideri ‒ nella contemporaneità ‒ e l’immagine della città per come si è costituita attraverso una serie di simboli che appartenevano a un modo di codificare le città, forse, precedente.
Il tuo più recente lavoro Are They Rocks or Clouds? rimanda al mondo della montagna, alla fotografia di paesaggio che analizzi in maniera assai particolare. Sono venuta a conoscenza di quel lavoro attraverso il libro che lo accompagna. Un progetto editoriale di notevole interesse, è tuo?
Are They Rocks or Clouds?’nasce in forma di libro o meglio, immaginare una forma editoriale mi ha aiutato a definire i vari aspetti e le specificità del progetto. Nel 2018 Lesley A. Martin mi assegnò il dummy Award a Cortona On The Move e a quel punto, grazie alla collaborazione con lo scrittore e curatore Taco Hidde Bakker, è stato coinvolto il designer ed editore Hans Gremmen che ha trasformato il prototipo in un vero e proprio libro.
Il libro, pubblicato da OTM e Fw:Books new 2019, è costituito di una serie di parti: l’archivio, che ci mostra come è il problema quando accade, il layering, che se da un lato fa riferimento alle sovrapposizioni di strati di rocce rappresentativi della struttura geologica delle Dolomiti, la bellezza e la fragilità delle montagne, dall’altro fa riferimento all’idea di confusione e concatenazione di cause spesso visibilmente non dissociabili dalle altre; i tre testi che da punti di vista diversi (antropologico, geologico e letterario) rispondono alle stesse domande sul come guardare il paesaggio, e infine la “coda” che, come alla fine delle sinfonie, non costituisce un indice ma una sorta di elemento che in parte spiega, in parte aggiunge. In questo caso specifico il libro non è un accompagnamento o un catalogo, è il progetto stesso.
Recentemente hai realizzato un interessante lavoro sulla metropolitana di Atene, sulla costruzione di sei nuove stazioni. Mi pare che in quel lavoro tu ti sia trovata di fronte a una dimensione di dialogo, più o meno voluta, tra presente e passato.
Sono stata invitata da Alessandro Dandini de Sylva ad Atene per realizzare un progetto che partisse dalla suggestione del grande scavo realizzato da un’enorme TBM di Ghella, uno scavo che a gennaio 2020, quando sono arrivata in Grecia, si stava quasi completamente rimarginando, ma che mi ha offerto l’opportunità di trovare una serie di elementi fondamentali per il mio modo di confrontarmi con le cose. Mi sono chiesta, partendo dagli scritti di Alois Riegl, quale fosse il senso delle città storiche in rapporto alle infrastrutture contemporanee.
Ho realizzato una serie di vedute dagli edifici intorno alle future stazioni della nuova metropolitana, che mettono in luce la relazione tra città contemporanea e una sorta di scavo al contrario. Le vedute sono associate a una serie di ‘archeologie’ che consistono in ciò che resta dello scavo. Le archeologie tengono insieme tempi diversi, il tempo geologico, il tempo storico e l’azione presente che facciamo sull’ambiente; è qui che torniamo a quell’indeterminatezza che citavamo inizialmente. Nel libro pubblicato da Quodlibet nel cofanetto Di roccia, fuochi e avventure sotterranee e nel display della mostra al MAXXI ho voluto estremizzare questa relazione, il sentimento di contaminazione e indeterminatezza.
‒ Angela Madesani
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati