Il volto concreto di Venezia nelle fotografie in mostra a Palazzo Grassi
Nell’anno in cui Venezia festeggia il 1600esimo anniversario della propria fondazione, Palazzo Grassi rende omaggio alla sua essenza tangibile, lontana dai cliché turistici. A essere esposta è una galleria di immagini tratte dall’archivio Venice Urban Photo Project, realizzato dall’architetto, editore e gallerista Mario Peliti.
Quanto può essere “iper” Venezia? Iper-esposta, iper-affollata, iper-danneggiata. Ma anche iper-vissuta, iper-ammirata, iper-fragile. Gli stessi elementi che la compongono – acqua, fondamenta, luce, storia, sale – racchiudono in sé una grandiosità che è al tempo stesso sinonimo di meraviglia e condanna. La mostra che sancisce la riapertura di Palazzo Grassi dopo sei mesi di restauri scava nella profondità di una HYPERVENEZIA che vuole scrollarsi di dosso il peso dello stereotipo, reso ancora più posticcio dalle evidenze di una pandemia non ancora conclusa.
LE FOTOGRAFIE DI MARIO PELITI
Il primo piano del distaccamento lagunare della Collection Pinault si trasforma in una superficie porosa, pronta ad accogliere una passeggiata bidimensionale tra i sestieri della città. A rendere possibile questo semplice, eppure ambizioso, esperimento visivo sono i circa 400 scatti selezionati dall’archivio fotografico ideato e implementato da Mario Peliti, architetto, editore e gallerista – insieme a Paola Stacchini Cavazza è il fondatore della Galleria del Cembalo a Roma – a partire dal 2006. Un work in progresso ipertrofico – è il caso di dirlo – che oggi conta oltre 12mila immagini in bianco e nero realizzate da Peliti con l’intento di mappare il corpo di Venezia in maniera inedita. La novità risiede nella scelta – anteriore alla solitudine pandemica – di restituire un tessuto urbano privo dei suoi abitanti e appiattito sui tagli di una bicromia che non concede sconti e riduce le distanze fra pietre, facciate, tetti, saracinesche e ponti. Una Venezia che calpesta sotto i piedi l’immaginario da cartolina e si mostra nelle sue fattezze reali, acuite dal filtro distopico di un vuoto reso quotidiano dall’emergenza.
UNA MOSTRA PER I VENEZIANI
Accompagnate dalle due lettere iniziali dei sestieri di riferimento e da un numero progressivo, le fotografie di Peliti si inseguono, senza pause né ostacoli – sono fissate al muro grazie a un reticolo di puntine, senza alcuna cornice o vetro a proteggerle dallo sguardo ‒, lungo una linea continua, orizzontale, che taglia i muri di ogni sala alla medesima altezza. Una geografia minima, nella quale trova spazio la dimensione del dettaglio, colto da un occhio allenato a ricomporre le asimmetrie della città in un mosaico accessibile a chi ha trovato in Venezia un punto di ancoraggio, un luogo – difficile e straordinario – in cui vivere. Sono queste le ragioni che rendono HYPERVENEZIA una mostra a misura di veneziano, ancora una volta senza la retorica dell’appartenenza a tutti i costi o della nostalgia di superficie. La memoria si attiva davanti agli scorci in bianco e nero, l’occhio scivola sui corrimano dei ponti, incespica in una insegna, si avvita attorno all’angolo di una casa o di una calle, fino a indovinarne le coordinate e ad assegnare loro un’identità autonoma e personalissima, mediata dal ricordo.
NOSTALGIA VS CLICHÉ
La nostalgia suscitata da queste immagini scarne eppure densissime ha, per un veneziano, la carica di un presente fisico, concreto, estraneo al rapimento sognante che si indovina nei gesti di chi la sperimenta per qualche ora. Venezia, per chi la vive, è fatica, allenamento alla bellezza, sfida e fune in equilibrio tra due estremi: la mostra di Palazzo Grassi, finalmente, reintegra nella città-cartolina l’esistenza dei suoi abitanti, riempiendo di significato gli inviti (post)pandemici a rivalutare la prossimità.
‒ Arianna Testino
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