Intervista a Caterina Notte. La fotografa che ribalta gli stereotipi femminili
Parola alla fotografa Caterina Notte, da anni impegnata nello studio del corpo femminile oltre gli stereotipi
Caterina Notte (Isernia, 1973), molisana, lascia ben presto la sua terra di origine per raggiungere Roma, città dove ha trascorso sedici anni della sua vita, iscrivendosi prima alla Facoltà di Architettura, poi a Economia e Commercio. Attualmente vive tra la Costa Smeralda e la Germania, portando avanti una ricerca fotografica sul corpo della donna.
Hanno scritto di te come di un’artista la cui ricerca è incentrata sul tema femminile, utilizzando la figura della donna nelle proprie opere (mi riferisco alle serie Genetics, Forme inquiete o alle prime video performance): era davvero così all’inizio? Come sei arrivata alla fotografia?
In realtà per me era soltanto una comodità: ero io il soggetto e proseguivo un’esplorazione su di me e sul digitale. Le mie prime fotografie erano una ricerca sul doppio, sul clone, su una dimensione altra che metteva in scena non una ma tante Caterina, con piccole differenze, in un’atmosfera liquida, digitale: all’epoca utilizzavo molto me stessa e il mio corpo. Era un modo per esplorare sia la dimensione reale che quella virtuale.
Poi è arrivata la Fondazione Ratti: qui ho avuto come visiting professor Alfredo Jaar, il quale mi ha instillato una responsabilità sociale verso la realtà. Poter intervenire nella realtà con la mia arte, se non per cambiare il mondo, almeno per lasciare dei segni, far luce su possibili altre prospettive, suggerire il cambiamento in me e negli altri.
Vedo questo anche nelle donne che ritraggo nelle mie fotografie: loro stesse, prima e dopo lo scatto, sono cambiate, non sono le solite di prima.
L’universo femminile e la violenza sono un fil rouge presente in tutte le tue fotografie: credi che ci siano ancora troppi stereotipi nell’affrontare questi temi (pensiamo alla moda, alla pubblicità, alla televisione, all’arte) e qual è invece il tuo approccio?
Penso che la donna sia stata un soggetto sempre esplorato: nell’arte come nella fotografia, in particolare di moda, ma che non sia stata indagata in tutto il suo mondo. Nella fotografia, la donna è spesso oggettualizzata, vista da uno sguardo maschile, l’oggetto del desiderio dell’uomo: difficile uscire da questo schema. Le mie sono donne vere: riconoscono le proprie fragilità e perciò diventano belle, di una bellezza in senso lato che va oltre i canoni estetici, che diviene arma, è forte e dunque fa paura.
La bellezza fa parte dell’essere umano: troppo spesso invece vedo nell’arte corpi femminili sofferenti, che vengono deturpati, maltrattati. Non può essere questa l’unica versione, per me è arrivato il momento di spingere anche in un’altra direzione.
LA FOTOGRAFIA SECONDO CATERINA NOTTE
Parlaci dei tuoi progetti fotografici e della loro gestazione nel tempo: ad esempio, Predator, che va avanti da più di dieci anni, o 49dolls…
Predator è nato nel 2010 con quattro bambine che avevo fasciato per gioco: sentivo la loro potente fragilità. È il mio tentativo di riscrivere la bellezza e la debolezza: uso le garze per comunicare tutta la forza dell’essere umano che riesce a esprimersi attraverso gli occhi, la bocca, gli organi sensoriali e le mani. Predator è la riscrittura di una potenza che è innata nell’essere umano; gioca molto sullo squilibrio tra l’osservatore e il soggetto osservato. Il primo finisce con il divenire preda di colei che in realtà è una predatrice. Mi piace questa dicotomia perché è indissolubile nella specie umana, fa parte della nostra lotta per la sopravvivenza: senza la preda, il predatore non avrebbe alcun senso di vivere, e viceversa.
È questo che cerco di ricreare, alla fine: uno scambio di ruoli che mi ha portato al nuovo progetto di Predator Ubiquity, su TikTok. Su questo social chiedo alle utenti, sempre femminili, di bendarsi, di entrare in video e di liberarsi dalle garze. Qui si capovolge di nuovo il ruolo perché quello che era lo spettatore adesso può bendarsi e agire direttamente in una realtà che è quella dei social, divenendo attivo.
Ho sempre lavorato sul concetto di limite: ecco perché le garze. Sono oggetti che rappresentano i limiti del nostro corpo, a partire dai quali è però possibile manifestarsi con forza.
E per quanto riguarda 49dolls?
49dolls è un’altra serie, parallela, che riflette su un periodo preciso della vita del soggetto: lo scontro tra l’infanzia e l’adolescenza, o tra l’adolescenza e la fase adulta. In questo preciso momento, ci si accorge di quanto il corpo si trasformi velocemente: una mutazione non facilmente gestibile. Il giudizio di sé è in realtà formato dal giudizio di tutti gli altri: è un momento di ribellione, paura, vergogna. 49dolls è un mondo che nasce dal timore ma che sta per esplodere: torna il tema della forza del cambiamento come un qualcosa di positivo perché immediato, critico. Dalla crisi tu cambi totalmente e violentemente, puoi costruirti il tuo nuovo mondo, un pezzetto alla volta.
LE DONNE E L’AFGHANISTAN
Una tua riflessione su quanto sta accadendo in Afghanistan e sul futuro della condizione femminile
È davvero un clima di logorante incertezza quello in cui le donne afghane continuano a cantare “I will sing freedom over and over”: sono una testimonianza vera della forza primordiale di cui parlo con il mio lavoro, ma è chiaro che possono ormai ottenere ben poco in una terra in cui da sempre manca la coesione.
È un dramma che ci parla di quanto le conquiste del femminismo possano essere all’improvviso spazzate via. L’equilibrio apparente che si era creato è stato di nuovo distrutto: quella dell’Afghanistan è una storia di sofferenza e di violenza che si perde nella notte dei tempi. Non bisognerebbe mai cedere a compromessi e barattare la propria libertà per un po’ di sicurezza, la vittima finale sarà la comunità: disomogenea e facilmente controllabile, di nuovo a danno dell’individuo. È inaccettabile la possibilità che, giorno dopo giorno, donne e bambine scompaiano senza che i nostri riflettori siano accesi sulle loro storie.
‒ Martina Marolda
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