60 anni di fotografie. Intervista a Ferdinando Scianna
Una selezione di 50 foto realizzate nell’arco di sessant’anni di attività – e allestite nella galleria milanese STILL ‒ è l’occasione per tornare a parlare con uno dei più grandi fotografi italiani di sempre
C’è una fotografia di Ferdinando Scianna (Bagheria, 1943) sul tavolo della galleria STILL, in via Zamenhof a Milano. Non fatta da Scianna, di quelle ce ne sono cinquanta alle pareti, ma con Scianna: è dentro un ascensore. È di un fotografo che abita davanti alla galleria, si rifà a un piccolo aneddoto. Quando il fotografo di Bagheria fu invitato a cena da Cartier-Bresson, ricorda: “Feci due cose, una più stronza dell’altra. Scesi alla fermata sbagliata della metropolitana, arrivando tardi, e mi portai dietro una scatoletta piena di fotografie. Mi sono reso conto che era una volgarità incredibile, quindi le ho nascoste nell’ascensore prima di entrare. Dopo poco gliele hanno portate”.
Con spirito autoironico e serenamente consapevole passeggia tra i suoi scatti, realizzati dagli Anni sessanta al 2016, in mostra fino al 22 gennaio.
Le fotografie, protagoniste della rassegna curata da Fabio Achilli e Denis Curti, sono bocconi della sua iconica carriera: c’è la Enna degli incappucciati, la Parigi dei senzatetto, la Beirut della guerra civile, una splendente Marpessa e i paesaggi del Sudamerica – “è una specie di ripasso: una pizzicata da 61 anni di fotografie”.
INTERVISTA A FERDINANDO SCIANNA
“Non chiamatemi maestro” è il titolo della mostra. Allora come la dovremmo chiamare?
È una trappola culturale. Mi viene in mente quella frase di Arbasino: “C’è un momento in cui si passa da bella promessa a solito stronzo. A pochi fortunati l’età concede di accedere alla dignità di venerato maestro”. E se sei “venerabile” vuol dire che stai per morire! [Fa le corna]. Il maestro era quello delle elementari. Mi imbarazzo. Piuttosto chiamatemi Santità.
Non capita spesso di vederla in una galleria privata.
No, per me le fotografie vivono nei giornali. Sono strumenti di comunicazione e devono avere uno scopo. Questa mostra mi assomiglia, anche se io non amo le antologie né dare così tanto spazio alla dimensione puramente estetica dello scatto. La mia prossima mostra sarà “Cosa diavolo è la bellezza?”, dato che quando mi è stato proposto di esporre una serie di foto sulla bellezza ho risposto così al telefono.
Il modo in cui le fotografie sono esposte cambia la percezione del fotografo?
Penso a Cartier-Bresson, al fatto che l’editore americano usò come titolo di Images à la souvette quella frase del cardinale di Retz, “l’attimo decisivo”, che ha finito per occupare, alcuni dicono come un tumore altri come un’ispirazione, l’immaginario di quattro generazioni di fotografi. Lui ha reso l’impossibile un lavoro: la sua fotografia più famosa, quello scatto mistico dell’uomo che salta, ha il passo di danza, l’acqua, quel manifesto corroso. Con la Leica agganciata al polso, Cartier-Bresson lavorava insieme alla realtà, che si aggiustava perché lui passava da lì. Alcuni dicono che catturare quel momento è questione di fortuna: allora era l’uomo con più culo della storia!
Un salto che ricorda quello all’inizio del Giorno della civetta di Sciascia, il primo mentore.
Sì, è vero. Ne abbiamo anche parlato. Lui mi ha detto “Non ci ho pensato”, però era uno che conosceva bene la fotografia.
LA FOTOGRAFIA SECONDO SCIANNA
C’è una grande varietà nel suo lavoro. Ha senso per un fotografo limitarsi a un tema?
No. Il fotografo è uno che guarda cercando di vedere. Mi immagino i “peintre animalier”, che facevano solo animali: una noia! Pure Morandi, per me il più grande, poteva fare meno bottiglie. Io ho fatto foto di tutto… questa cosa ludica e assolutamente necessaria che è la fotografia. Ora non fotografo quasi più, anche se mai dire mai, e ho dedicato 18 anni a digitalizzare il mio archivio di 55mila fotografie. Mica tutte buone. Cartier-Bresson mi disse che delle sue migliaia di foto ne aveva fatte davvero buone tra 50 e 60. Io credo le mie siano meno di una ventina.
È stato difficile iniziare, 61 anni fa?
Mio padre si vergognava di dire che facevo il fotografo. La mia famiglia si era arricchita con il vino, e quando ci fu la peronospora ci siamo salvati coi limoni. Ha cominciato a dire in giro cosa facessi solo quando ho cominciato a scrivere per l’Europeo: “Mio figlio è giornalista”, era orgoglioso perché scrivere è sempre stato prestigioso. E io che ero pagato un quinto dei giornalisti! Se mi vedesse oggi sarebbe stupefatto.
Da pochissimo è uscito l’aggiornamento della sua autobiografia, l’Autoritratto.
I libri sono la cosa più importante, per me. Con orgoglio e inquietudine, dico: ho fatto 66 libri in 61 anni. Le fotografie acquistano senso quando entrano nei libri, diventano “prosa visiva”. Eppure quando sono stato al Ghetto di Venezia per il mio ultimo progetto fotografico, tenendo in mano la macchina fotografica ho sentito che solo in quei momenti sono davvero felice. C’è questa cosa di “aspettare”, come diceva Robert Frank, “che Dio faccia capolino da dietro l’angolo” – spesso ti sbagli, novantanove volte su cento, ma ogni tanto succede davvero.
– Giulia Giaume
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