Una questione di affetto. La fotografia di Sabine Weiss in mostra a Venezia
La Casa dei Tre Oci di Venezia accoglie la prima retrospettiva postuma della fotografa scomparsa a 97 anni sul finire del 2021. Un itinerario attraverso la storia professionale e intima di un’autrice che ha saputo conquistare un posto di rilievo in un campo a impronta fortemente maschile
Esiste una grammatica degli affetti, così come esiste una grammatica della fotografia. Se la prima è fatta di empatia, sensibilità e vicinanza, la seconda declina questi aspetti in una sintassi che intreccia tagli di luce, ombre, geometrie e punti di fuga. Sabine Weiss (Saint-Gingolph, 1924 – Parigi, 2021) sembra conoscerle entrambe e restituirle in scatti emotivi e al tempo stesso rigorosi, gran parte dei quali riunita dalla mostra alla Casa dei Tre Oci di Venezia, a cura di Virginie Chardin. Il rigore, tuttavia, qui non è sinonimo di rigidità, ma di quella tendenza, mai disattesa e implacabile, a trasmettere la ricchezza dell’istante in cui l’otturatore scatta e ferma per sempre lo sguardo del fotografo sul mondo.
LA FOTOGRAFIA DI SABINE WEISS A VENEZIA
Lo sguardo di Sabine Weiss è leggero e curioso, si muove veloce, fin dagli esordi in tenera età, sui soggetti che colpiscono la sua attenzione e che coincidono con i gesti e i movimenti di bambini e anziani, dei clochard tra le vie di Parigi – dove Weiss si trasferì negli Anni Quaranta del secolo scorso per inseguire la sua vocazione di fotografa –, con le atmosfere notturne evocate dalla fiamma di una sigaretta accesa nel buio o dal vapore di una locomotiva alla Gare Saint-Lazare. Sabine Weiss usa la luce per mettere in fila l’affetto che nutre per i suoi soggetti, chiunque essi siano. E non ha paura di dare voce ai propri occhi, soffermandosi sul momento dello scatto anziché su quanto ne consegue. Come spiegava l’amatissimo marito Hugh Weiss – pittore americano conosciuto dalla fotografa a Parigi e suo compagno di vita per oltre cinquant’anni ‒, “per lei la cosa più importante è l’eccitazione che prova nel momento in cui scatta una serie di immagini. Ciò che le sta più a cuore è questa coesione emotiva tra lei e i suoi soggetti […]. Che fotografi un abito di Dior o una banda di ragazzini, quello che conta per lei è il fatto di affrontarli, e il controllo di tutti gli elementi dell’immagine. A un certo punto questi elementi, la sua macchina, e lei stessa sembrano fondersi”. Un atteggiamento che guiderà l’intensa attività di Sabine Weiss lungo tutta la sua carriera, a prescindere dall’ambito sul quale di volta in volta punta l’obiettivo.
LA STORIA DI SABINE WEISS
Tra le pochissime fotografe indipendenti dell’epoca, Weiss si muove sicura tra il reportage e la carta stampata, collaborando con riviste internazionali e ricevendo da Magnum, nel 1952, l’incarico di documentare la vita nella comunità di Dun-sur-Auron, paese che ospitava pazienti psichiatrici in un contesto familiare aperto. Da quell’incarico all’ingresso nella agenzia Rapho il passo è breve e per Weiss si inaugura una stagione fatta di viaggi – passione che non la abbandonerà mai – e di successi. Eppure il “fare” ha sempre la meglio per Weiss, che rifiuta di essere definita artista e che preferisce inseguire i suoi soggetti, tra il primo soggiorno negli Stati Uniti nel 1955 – da cui deriveranno alcuni degli scatti più ironici, “riscoperti” solo in tempi recenti – e i reportage da una parte all’altra del mondo commissionati dalla NATO e dall’OCSE ma anche da giornali e riviste. Anche la moda e le arti visive incrociano il cammino di Sabine Weiss, che documenta le collezioni di Givenchy, Dior e pubblica su Vogue negli Anni Cinquanta, e che ritrae gli artisti con i quali entra in contatto, soprattutto a Parigi. In entrambi gli ambiti, Sabine Weiss alterna il bianco e nero e il colore per dare forma a istantanee dense e, ancora una volta, leggiadre. La posa della modella di Dior con il cane al guinzaglio, le movenze pittoriche di Niki de Saint Phalle e lo sguardo di Kees van Dongen si inscrivono in quella grammatica precisa degli inizi, in un equilibrio perfetto tra emotività e controllo. La mostra dei Tre Oci rende il meritato omaggio a un’autrice che fino all’ultimo ha messo la propria fotografia al servizio della collettività, affidando al Musée Photo Elysée di Losanna il compito di custodire i suoi archivi dopo la sua morte. Una scelta che ben si adatta alla poetica di una fotografa davvero “umanista”.
‒ Arianna Testino
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