Quanto conta l’apparenza nella fotografia. Intervista ad Alessandro Cinque
Affronta la spinosa questione dell’essere e dell’apparire la mostra fotografica di Alessandro Cinque allestita al Palazzo Baldelli di Cortona nell’ambito del festival Cortona On The Move. Ne abbiamo parlato con lui
Ser y aparecer (“essere e apparire”) non è solo il titolo della mostra di Alessandro Cinque (Orvieto, 1988; vive a Lima) nel circuito di Me, Myself and Eye ‒ XII edizione del festival internazionale di fotografia Cortona On The Move (in programma fino al 2 ottobre 2022), ma è in sé un argomento chiave della rappresentazione fotografica. Come scrive Roland Barthes nel saggio La camera chiara. Nota sulla fotografia (1980): “Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”.
Ser y aparecer (2022) è l’incontro di più sguardi: quello del soggetto e quello del fotografo italiano che intercetta un terzo sguardo, l’occhio del fotografo peruviano Yhon Alex Huachaca López, che nel suo studio di Espinar, nella regione di Cuzco, realizza fototessere con un ampio margine di libertà creativa. Tra la realtà e l’aspirazione a un’altra possibile identità il confine è labile. Il digitale funge da acceleratore, ma certi “trucchi”, come è noto, si usavano già in camera oscura sin dalle origini della “scrittura con la luce”.
INTERVISTA AD ALESSANDRO CINQUE
Come nasce Ser y aparecer?
Sono cinque anni che vivo a Lima, dove porto avanti il mio progetto sul tema della contaminazione delle miniere. Come europeo, italiano e bianco mi sono chiesto se le persone delle Ande si riconoscessero nelle foto che facevo loro, o se invece era la mia visione esotica di un’altra cultura. Ma non volevo sentirmi un “colonialista dell’immagine”, per questo sono andato alla ricerca di come loro si sentono rappresentati. Entrando nelle loro case ho trovato degli ingrandimenti di fototessere in cui il fotografo gli ha messo abiti che non hanno. Spesso le persone ritratte sono campesinos che cercano di apparire come appartenenti a una classe sociale differente anche per lasciare ai nipoti, che forse non conosceranno mai, un ricordo diverso dalla realtà. A Espinar, nelle Ande, una delle città minerarie più importanti del Paese, a 4 ore di automobile da Cuzco, ho conosciuto il fotografo Yhon Alex Huachaca López e ho trascorso del tempo nel suo studio, insieme a lui, ad aspettare la gente che andava a farsi fare la fototessera. Dopodiché ho messo a paragone la sua visione, accettata dalle persone ritratte, con la mia in cui ritraggo quelle stesse persone nella realtà del quotidiano.
Come mai hai scelto il linguaggio della fotografia a colori?
Il mio progetto a lungo termine Peru: A Toxic State, iniziato nel 2017, è tutto in bianco e nero. In quel caso volevo concentrarmi sul tema, inoltre la luce delle Ande è difficile perché è molto forte, si sta in alta quota ed è complicata da gestire. Ho scelto il bianco e nero proprio perché ci si concentrasse sul messaggio e non sul linguaggio. Invece, per Ser y aparecer ho preferito il colore anche in considerazione del fatto che le foto dei documenti d’identità sono tutte a colori. Volevo anche far vedere i colori delle Ande. Nelle sue fototessere Yhon Alex Huachaca López mette degli sfondi gradienti in base al colore dei vestiti che fa indossare alla gente. Persone che possono cambiare apparenza e identità proprio in base al vestito che hanno. Nella stessa posa vediamo il signore con la divisa che sembra un generale dell’esercito che poi, magari, è in smoking. Invece, io ho deciso di fotografare i soggetti com’erano, senza intervenire in alcun modo nel loro contesto per mettere poi quell’immagine a confronto con le fototessera del fotografo locale. Anch’io mi sono fatto fotografare da Yhon, facendo scegliere a lui gli indumenti che avrei indossato. Volevo essere ritratto come lui mi vedeva. Lui mi ha messo un abito “photoshoppato”, mi ha modificato il volto, i capelli… Era la sua visione. Guardando la mia fototessera ho pensato subito che fosse illegale. Erano venuti meno tutti i criteri alla base della foto d’identità. Ci sono delle regole precise da seguire per la foto da usare nei documenti, almeno in Italia: essere su fondo chiaro e tinta unita, avere una colorazione neutra, mostrare il colorito naturale delle persone, avere un livello ottimale di luminosità e contrasto…
In un certo senso Ser y aparecer è stato un lavoro a quattro mani…
Io ho ritratto alla mia maniera e Yhon Alex Huachaca López alla sua. Visto che non sarebbe potuto venire a Cortona per la mostra, ho voluto che ci fosse il suo ritratto in grande formato. Abbiamo parlato molto, nel suo studio. Anche il mio babbo, poi, faceva le fototessere.
ALESSANDRO CINQUE E LA FOTOGRAFIA
La tua familiarità con la fotografia nasce, infatti, dall’esperienza che hai fatto nello studio fotografico di tuo padre a Orvieto.
Sì, il mio babbo fa il fotografo di matrimonio a Orvieto (Giovannino Cinque ‒Fotografico Effe Cinque, Orvieto, N.d.R.), la città dove sono nato. Però a 10 anni, per motivi familiari, mi sono trasferito a Firenze e dai 16 anni ho ricominciato a vederlo più spesso, proprio per via della fotografia. Andavo con lui a fare i matrimoni. Diciamo che ho passato l’infanzia dentro il suo negozio, tra le sue fotografie. Lo vedevo uscire dalla camera oscura con quelle luci rosse e mi sembrava una cosa magica. Ho visto anche tanta gente che andava da lui a farsi la fototessera. C’è una sorta di vanità in chi va a farsi fotografare, infatti il mio babbo ha dovuto mettere uno specchio nello studio, perché la gente si voleva vedere. Ferdinando Scianna dice che la foto più importante, per una persona, è quella che ha nel portafoglio.
Anche tu, quindi, per un certo periodo hai fotografato matrimoni. Qual è stata la lezione che hai imparato da questa professione?
Sì, ne ho fatti tanti! C’è molta umanità nel fotografare i matrimoni, ma anche al livello tecnico può essere una scuola. Dobbiamo pensare che quelle persone affidano alla tua visione il giorno che forse, dipende da come va il matrimonio, è uno dei più importanti della loro vita.
La maggior parte di loro non sa niente di fotografia. Non sanno posare, né fare le foto, quindi il fotografo deve, in qualche modo, riuscire a fotografare una bellezza in una normalità che, però, è finta. Un altro aspetto, poi, è quello del reportage. Quando si fa una storia di fotogiornalismo non si pensa tanto se il soggetto è venuto bene, perché la priorità è raccontare la storia, mentre la prospettiva è altissima per le persone comuni quando si tratta del loro matrimonio. A livello tecnico un matrimonio prevede che si fotografi in tutti gli orari, mentre quando si fotografa una storia si può decidere quando andare a fotografare perché la luce è migliore. Dal punto di vista sociale, poi, attraverso i matrimoni si racconta un’epoca storica. Personalmente penso di aver raccontato parecchio, tra il 2008 e il 2017, della società italiana.
C’è sempre una componente psicologica nello sguardo del fotografo, nell’interpretazione di una certa idea di bellezza e di eternità legata alla committenza.
Bisogna cercare di capire, anche dai dettagli, la direzione del lavoro. Se le persone vogliono una fotografia che esalta, oppure più neutra, più vera e meno finta. Tutto ciò è legato alla velocità.
ALESSANDRO CINQUE E IL PERÙ
Riesci sempre a mantenere neutro il tuo sguardo di fotografo?
Quando fotografavo i matrimoni non sempre riuscivo a essere neutro, ma per fortuna le foto di matrimonio non si consegnano il giorno dopo averle fatte. A volte, ad esempio, mi divertivo a fare delle foto più ironiche che, però, alla fine non consegnavo agli sposi. Per quanto riguarda, invece, il fotogiornalismo, cerco di osservare, anche se ho una mia opinione. Ad esempio, in Peru: A Toxic State sono completamente a favore delle popolazioni indigene, ma devo anche far sentire la versione neoliberale o neocolonialista delle imprese minerarie. Nelle fotografie cerco di far apparire il mio pensiero senza gridarlo.
Cosa ti ha spinto a trasferirti in America Latina?
Lavorando con i matrimoni ho messo da parte un po’ di soldi. Ne facevo almeno cinquanta all’anno! Mi ero appassionato e avevo aperto il mio studio fotografico a Firenze, ma il mio sogno era quello di fare il fotogiornalista. Quindi ho investito i soldi che guadagnavo facendo il fotografo di matrimoni andando a studiare all’ICP ‒ International Center of Photography di New York. In Perù mi colpì particolarmente la storia delle miniere, perché c’erano degli elementi che appartenevano anche alla mia storia familiare. Ho deciso di fermarmi lì per capire di più, e il fatto che si trattasse di una cultura diversa dalla mia mi ha dato quella protezione psicologica per affrontare la storia. Ho deciso di tornarvi tante volte, finché dopo aver vinto anche dei premi, la mia agenzia ‒Reuters ‒ mi ha proposto di stabilirmi in Perù. Ho chiuso lo studio fotografico di Firenze e sono andato in Perù.
‒ Manuela De Leonardis
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