Un archivio di fotografie senza testa. Il progetto di Martina Bacigalupo
Offre una inedita prospettiva sull’Uganda e sulla sua storia la mostra di Martina Bacigalupo allestita al Palazzo Baldelli di Cortona, nell’ambito della XII edizione del festival internazionale di fotografia Cortona On The Move. L’artista ha preso spunto da un archivio di ritratti senza testa, approfondendone il significato
Nell’ambito di Me, Myself and Eye, XII edizione del festival internazionale di fotografia Cortona On The Move, organizzato nell’antica città etrusca dall’associazione culturale ONTHEMOVE (fino al 2 ottobre) con Medici Senza Frontiere nelle vesti di charity partner, la mostra Gulu Real Art Studio di Martina Bacigalupo (Genova, 1978; vive a Parigi), a Palazzo Baldelli, stimola una serie di riflessioni sulle “verità” della rappresentazione fotografica in linea con il tema del festival. “Partendo dal titolo di una struggente ballata di Billie Holiday, voglio che gli spettatori si interroghino su come la fotografia non sia assoluta, ma acquisti significato in base a chi la produce e chi la consuma”, ha affermato il fotografo Paolo Woods debuttando alla direzione artistica di quest’edizione di Cortona On The Move insieme a Veronica Nicolardi, collaboratrice storica del festival.
Gulu Real Art Studio è un progetto appassionante (il libro è stato pubblicato nel 2013 da Steidl/The Walther Collection) della fotogiornalista membro dell’agenzia VU’ dal 2010 che esplora le potenzialità degli archivi fotografici anche quando sono “casuali” e costruiti intorno a un’assenza, per diventare portavoce di una narrazione che offre molteplici letture.
INTERVISTA A MARTINA BACIGALUPO
Nel 2010-11 eri in Uganda per l’assignment di Human Rights Watch sulla vita delle donne con disabilità. È in quest’ambito che è nato il progetto Gulu Real Art Studio?
Non credo che se fossi appena sbarcata a Gulu per fare il lavoro su Filda Adoch e fossi subito ripartita, come succede spesso nel fotogiornalismo, mi sarei potuta soffermare sulle immagini del progetto Gulu Real Art Studio. Da subito mi ha colpito la possibilità di raccontare una storia in maniera diversa. Una storia di una regione del continente Africa di cui, personalmente, avevo ricevuto sempre una narrazione univoca, quella occidentale, paternalistica oppure in quanto terra dei misteri. A 9 anni divoravo i libri di Salgari, ero completamente affascinata da quel mondo misterioso e magico che però era un grande stereotipo. Sono cresciuta, quindi, con quest’immagine dell’Africa tra letteratura e news. Forse le nuove generazioni iniziano finalmente a poter vedere in maniera diversa, perché ci si apre ad altre narrative e altri modi di guardare, ma allora era così. Non è perché sei occidentale, bianco, in una terra differente ‒in questo caso nel continente africano ‒ che puoi raccontare una storia, soprattutto considerando che la storia della fotografia è andata avanti mano nella mano per secoli con il colonialismo. Ma il fatto stesso di riconoscere questa posizione e assumerla, prendendone consapevolezza, mi ha portata a cercare di fare altro.
Spiegaci meglio.
Il lavoro su Filda Adoch (My name is Filda Adoch è stato vincitore del Canon Female Photojournalist Award 2010, N.d.R.) è stato, forse, il mio primo vero tentativo di raccontare in maniera molto classica, in bianco e nero, un quotidiano dove non accade nulla. Non è una storia di miseria e non c’è la guerra: è la storia di una donna. Ogni sera tornavo da lei, le mostravo le foto e lei le commentava. Tutto il lavoro è fatto con le sue parole. Lei dice delle cose buffissime che io non avrei mai detto, o magari tenerissime tipo “questa foto deve starci perché è una foto vera: dentro c’è la gallina”. Questo era l’approccio che avevo nel tentativo di raccontare in maniera diversa la realtà intorno a me. Gulu Real Art Studio è stata un’opportunità straordinaria per una narrazione a più livelli. Quando mostro il libro a mia figlia che ha 7 anni lei si diverte, quando invece lo vede qualcuno che conosce il nord dell’Uganda e la sua storia, vedendo quei ritratti senza testa, pensa immediatamente all’etnia Acholi e al tentativo di genocidio da parte del governo del presidente ugandese Yoweri Museveni. Ognuno ha una lettura diversa. Non c’è una storia sola, ma tante dove è presente la tragedia, la leggerezza, la vita quotidiana, il piacere.
UN INCREDIBILE ARCHIVIO FOTOGRAFICO
L’incontro con il materiale d’archivio è avvenuto in maniera casuale?
Alla fine di febbraio 2011, quando il lavoro su Filda Adoch era terminato, avendo conosciuto tutta la sua famiglia decisi di lasciare loro delle fotografie, così dissi all’autista di boda-boda ‒ il moto-taxi ‒ di portarmi in uno studio fotografico di Gulu per stampare le 40 fotografie. Stranamente lui anziché portarmi dal più noto, mi lasciò da un altro di cui non ricordo il nome. Nell’attesa prolungata delle stampe, a un certo punto, vidi una foto 10×15 che era stata dimenticata sul bancone. Era il ritratto a colori di una persona fino alle ginocchia, su un fondo rosso, ma senza testa: il rettangolo era stato ritagliato. Presi in mano quell’oggetto che trovai concettualmente straordinario. Mi colpì profondamente. Chiesi alla proprietaria di cosa si trattasse, pensando all’arte contemporanea, e lei l’accartocciò e buttandolo disse: “Mi scusi è spazzatura”. Dovevo assolutamente vedere quella spazzatura!
Quindi cosa accadde?
Era lì Obal Denis, che è il proprietario del Gulu Real Art Studio, il più antico studio fotografico della città, fondato negli Anni Settanta da suo padre, che mi ascoltò e ridacchiando mi disse che se mi interessava mi avrebbe fatto vedere tante di quelle immagini. Lo seguii, facemmo venti metri di strada e mi portò nel suo studio. Ricordo di aver visto con lui la spazzatura dello studio con pezzi di vetro, legno… c’era di tutto, anche queste foto. Ne tirò fuori cinque o sei, era la mattina dell’ultimo giorno in cui sarei andata da Filda, nel villaggio di Along. Chiesi a Obal di mettermele da parte: sarei passata a prenderle la sera. Tornai dal villaggio molto tardi e andai a casa sua, lui mi presentò la moglie, i suoi sei bambini e mi diede una scatoletta che conteneva una ventina o trentina di foto. Ho pensato subito di farci un lavoro perché le trovavo bellissime. Gli chiesi di non buttarle più via, lui ‒ sempre ridacchiando sotto i baffi ‒mi disse di sì e mantenne la promessa, mettendomele da parte per due o tre anni.
L’UGANDA E LA FOTOGRAFIA
Le immagini sono senza la testa perché le persone ritratte non potevano permettersi quattro foto?
Esatto, le persone avevano bisogno della foto tessera per aprire il conto in banca, fare la richiesta del rimborso per le mucche rubate durante la guerra oppure per iscriversi a scuola. Alcuni camminavano per due giorni per andarsi a fare la foto e, piuttosto che pagare il servizio express che non potevano permettersi, aspettavano fuori dallo studio per un’intera giornata dormendo lì davanti. A loro serviva una sola foto, non tre che forse non avrebbero neanche potuto pagare, né tanto meno il fotografo poteva permettersi di buttarle. Usava una digitale con vecchie pellicole e con una macchinetta tagliava la testa. La foto ritagliata veniva data al cliente e il resto si buttava. Obal Denis mi ha tenuto questi scarti che andavo a recuperare certe volte a Gulu, dove sono tornata anche per intervistare le persone che si facevano fotografare in studio.
Ti sei “appropriata” di queste immagini fotografiche offrendo loro un’altra possibilità, ma soprattutto dando la parola alle persone ritratte.
Alcune volte ho intervistato le stesse persone ritratte, altre no perché le foto erano state scattate molto tempo prima. Ma questo non è rilevante. Non avevo voglia di mettere un nome e un cognome a quel quadratino mancante, volevo raccontare la storia di una comunità che in parte è già raccontata dalle foto in sé, ma le interviste aggiungono una tridimensionalità che forse mancava. La mia domanda era una soltanto: “Perché sei qui, oggi, a farti fare la foto?”. Alcuni hanno risposto in cinque minuti, per altri c’è voluta un’ora e mezza. Le persone condividevano molto generosamente pezzi della loro vita. Quello che è incredibile è che per noi, oggi, la fotografia è diventata banale, ne abbiamo così tante. Per loro, invece, il momento della fotografia è ancora un momento chiave della propria vita.
Infatti in molti casi era la prima volta che le persone venivano fotografate. C’è anche la storia della “blue jacket”.
Il blazer blu racconta la storia di Gulu, piccolo paese di campagna che diventa l’hub economico più importante del nord dell’Uganda, tra Kampala e Juba, soprattutto dopo l’indipendenza del Sud Sudan. Con la guerra il Paese ha ricevuto molti aiuti economici, per cui c’erano molte banche, in particolare la Barclays Bank, essendo un’ex colonia britannica. Ma per aprire un conto, soprattutto in questa banca, si richiedeva una foto con una giacca blu e una cravatta che nessuno aveva. Obal ne possedeva una taglia XXL con tre o quattro cravatte. Nella foto d’identità la persona ritratta è impeccabile, ma la verità dell’immagine è grottesca. Gli uomini sono tutti persi in questa giacca gigantesca. La riflessione è anche su come l’immagine ‒ quel rettangolo – possa, in qualche modo, mentire, censurare o tagliare fuori per forza di cose. Questo lavoro mi ha permesso di vedere, come quando si guarda dal buco della serratura, qualcosa che non è possibile vedere, il fuori campo. Ma quello che mi tocca di più che si tratta sì della storia di un villaggio, ma anche della resistenza stessa di un villaggio nonostante la guerra, i tentativi di genocidio e di riappropriazione occidentale. Attraverso la loro postura, la gestualità, lo stare dritti, l’indossare un certo abito, la posizione delle mani sulle ginocchia, quelle persone sembrano dire siamo ancora qui, non ce ne siamo andati. Una cosa che mi commuove sempre riguardando queste foto.
‒ Manuela De Leonardis
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