La rivoluzione siamo noi: l’arte in Italia tra il 1967 e il 1977
Pubblichiamo qui il testo di Ludovico Pratesi che accompagna la mostra da Camera a Torino. Da leggere e studiare prima o dopo la visita, per una rassegna che chiuderà il 2 ottobre 2022
Questa mostra nasce dal documentario La rivoluzione siamo noi. Arte in Italia 1967-1977 (2021) con la regia di Ilaria Freccia e la consulenza storico-artistica dello scrivente. Prodotto da Istituto Luce-Cinecittà, racconta in presa diretta la straordinaria stagione vissuta dal nostro Paese in quel memorabile decennio tra il 1967 e il ‘77 attraverso una serie di materiali, dei quali molti inediti, reperiti attraverso lunghe ricerche in una trentina di archivi, pubblici e privati. Ripercorriamo questo decennio formidabile attraverso una selezione di immagini colte da fotografi come Claudio Abate, Mimmo Jodice, Bruno Manconi, Paolo Mussat Sartor e Paolo Pellion di Persano, negli studi degli artisti, nelle grandi rassegne nazionali e internazionali, nei musei e nelle gallerie, nei garage e nei parcheggi sotterranei, ma anche per le strade e nelle piazze.
TORINO: LA CULLA DELL’ARTE POVERA
Il vero deus ex machina dell’arte contemporanea a Torino è Gian Enzo Sperone, che apre la sua galleria nel 1964, dopo essere stato collaboratore della Galatea di Mario Tazzoli e direttore della galleria Il Punto (1963-64). Nell’arco di sei anni, dal 1964 al 1970, lo spazio di Sperone diventa il fulcro di un’attività espositiva tra le più avanzate dell’epoca, dove si alternano mostre di artisti della Pop Art con i protagonisti della Minimal Art, della Conceptual Art e dell’Arte Povera. Il fotografo ufficiale della galleria è Paolo Mussat Sartor (1947), entrato da Sperone come amico di Antonio Tucci Russo, che aprirà a sua volta una galleria nel 1974. Mussat è il principale testimone e interprete di quel momento straordinario per Torino, culla dell’avanguardia. “A quei tempi andare in galleria era come prendere un caffè, ci si vedeva tutti i giorni”, racconta. “Ogni giorno c’era qualcosa da fare. Ognuno portava un lavoro in galleria e se ne discuteva per ore. Allora l’idea era che il lavoro lo mostravi agli altri artisti quasi ancora prima di farlo, non dopo”. Il suo obiettivo segue gli artisti ovunque, negli studi, durante le conversazioni in galleria, nelle performance e nelle grandi rassegne internazionali, come la Biennale di Venezia, sempre attento a registrare l’immediatezza del momento con un elegante e sobrio bianco e nero, da perfetto “osservatore partecipante”. A lui si affianca nei primi anni Settanta Paolo Pellion di Persano (1947-2017) che preferisce raccontare attimi particolari non privi di ironia, come il comportamento degli artisti alla guida delle loro automobili, oppure l’atteggiamento degli artisti in dialogo con le loro opere, delle quali coglie alcuni dettagli significativi. “Allora c’era un clima molto aperto, gli artisti erano amici fra loro, tutti socializzavamo, ci scambiavamo pensieri, impressioni. L’apporto di tutti gli artisti è stato per me fondamentale. Mi hanno insegnato molte cose, soprattutto da un punto di vista tecnico”, ha raccontato Pellion.
ROMA: UNA CAPITALE PER IL CONTEMPORANEO
Quando la saracinesca del garage di Via Beccaria, che da poche settimane ospita L’Attico, la nuova galleria di Fabio Sargentini, si alza per far entrare i dodici cavalli protagonisti della mostra personale di Jannis Kounellis Senza titolo, per la città di Roma comincia una nuova stagione. È il 14 gennaio del 1969: con quel gesto si chiude la Dolce Vita, sostituita dall’esplosione di un’arte più attenta a temi sociali e politici, che esce dalle gallerie per entrare in contatto con la vita quotidiana, in una città che pullula di iniziative legate al contemporaneo. Sono anni nei quali l’opera d’arte scende dalla parete, “comincia l’occupazione da parte dell’arte dello spazio della vita, utilizzando materiali quotidiani e occupando spazi alternativi, in sintonia con un clima di confronto , ma anche di idealità”, puntualizza il critico Achille Bonito Oliva, vulcanico protagonista della scena romana insieme alla collezionista e mecenate Graziella Lonardi, fondatrice degli Incontri Internazionali d’Arte a palazzo Taverna vicina a critici come Giulio Carlo Argan , Bruno Corà e lo stesso Bonito Oliva. Il primo fotografo a cogliere la dimensione dinamica e rivoluzionaria della scena artistica romana a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta è Claudio Abate (1943-2017), amico di molti artisti della scena cittadina. Il suo obiettivo, discreto ma puntuale, segue gli artisti da vicino e coglie gli aspetti più intimi e privati del loro lavoro, oltre a documentare mostre e performance. “C’era bisogno di far capire il senso dell’opera attraverso un’unica foto. Erano opere non vendibili, non sarebbero state più realizzate e l’immagine fotografica in tal senso diventava fondamentale”, racconta. I suoi scatti, sempre immediati e flagranti e mai magniloquenti o celebrativi, permettono di immergersi nell’atmosfera vibrante di alcune esposizioni collettive di quegli anni, come Amalfi 68: Arte Povera più Azioni Povera (1968) ad Amalfi, Lo Spazio dell’Immagine (1968) a Foligno o Amore mio (1970) a Montepulciano. Per non parlare di Vitalità del Negativo (1970) e Contemporanea (1973), considerate veri e propri laboratori di sperimentazione di artisti italiani e internazionali, protagonisti di una Roma capace di accogliere le espressioni più avanzate dell’arte con coraggio e consapevolezza, in anni che, come ha sottolineato Bonito Oliva, “contenevano promesse e minacce di novità”.
NAPOLI: ARTE SOTTO IL VULCANO
All’ombra del Vesuvio tra il 1968 e il 1980 l’arte contemporanea esplode e si espande come un’eruzione, portando a Napoli da tutto il mondo i linguaggi più sperimentali e innovativi. Il primo catalizzatore dell’interesse per la città da parte del mondo dell’arte internazionale è il gallerista Lucio Amelio (1931-1994), seguito nei primi anni Settanta da Lia Rumma e Pasquale Trisorio. “Questa città è salutare, è una capitale decaduta ma sempre fiera, metropoli del terremoto e del disastro quotidiano, dove tra falsi equilibri si assiste ad una continua e magica rinascita, si vive un continuo ribollire, un eterno rinnovamento di un fertile humus culturale, che si trasforma sempre più spesso in un grande fermento di importanti iniziative internazionali”. La sua Modern Art Agency, aperta nel 1965, ospita negli anni artisti del calibro di Jannis Kounellis, Mario Ceroli, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Cy Twombly e Luigi Ontani, senza contare Andy Warhol e soprattutto Joseph Beuys, che Amelio invita con tutta la famiglia a Capri nel 1971, conquistandolo con il suo tedesco perfetto. Lucio è un uomo affascinante, coraggioso e cosmopolita, e le sue mostre, sempre affollatissime, sono rimaste nella storia grazie alla documentazione fornita da alcuni fotografi del tempo, come Fabio Donato (1947) e Mimmo Jodice (1934). Così lo descrive il regista Mario Martone: “Lucio Amelio possiede la straordinaria capacità di mantenere intatta la propria identità di figlio del popolo diventando, nello stesso tempo, protagonista dell’arte contemporanea”. Tra i primi collezionisti della galleria di Amelio c’è il giovane salernitano Marcello Rumma con la moglie Lia, al quale Lucio vende nel 1970 un dipinto di Cy Twombly. Fine collezionista, raffinato intellettuale nonché fondatore del Centro Studi Colautti di Salerno, Rumma è il promotore della rassegna Amalfi 68. Arte Povera più Azioni Povere, curata da Germano Celant, che si tiene negli Arsenali di Amalfi dal 4 all’8 ottobre 1968. Considerata la prima mostra pubblica del movimento dell’Arte Povera, Amalfi 68 è un grande happening, durante il quale una ventina di artisti, italiani e internazionali, coinvolgono la città in una vivace e animata kermesse. L’evento viene documentato da Bruno Manconi con una serie di scatti custoditi nell’archivio della galleria Rumma, che presentano aspetti inaspettati, come Jan Dibbets che installa nell’acqua la sua opera, Richard Long che stringe la mano ai passanti e perfino una partita di calcio improvvisata tra gli artisti. Un modo diretto e coinvolgente per raccontare i momenti più intimi di una rivoluzione che in quegli anni avrebbe trasformato l’Italia in uno dei paesi più liberi e creativi del mondo.
– Ludovico Pratesi
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