Irene Kung, la fotografa della montagna estrema
Tibet e Yunnan sono le destinazioni affrontate dalla fotografa Irene Kung, che presenta gli esiti dei suoi viaggi nella mostra alla galleria Valentina Bonomo di Roma
“Fotografo come facevo in pittura. Scatto, poi metto via le foto e le ritiro fuori dopo qualche giorno. Porto avanti solo il lavoro che mi emoziona e m’ispira di più. Un approccio che è intuitivo e molto emotivo”, afferma Irene Kung (Berna 1958) in occasione della sua quarta mostra personale Rough tough and mystic. Da un viaggio in Tibet e Yunnan alla galleria Valentina Bonomo di Roma. Queste nuove fotografie a colori, realizzate alla fine del 2017 e del 2018, durante un viaggio a due riprese durato un mese, restituiscono il senso profondo del rapporto dell’essere umano con la natura, lì dove il paesaggio è “ruvido, duro e mistico”. L’immensità fluida dello Yangtze è complementare alla staticità delle acque del Namtso Lake, il lago salato più alto al mondo (situato in Cina a oltre 4700 metri), così come all’architettonica maestosità del palazzo del Potala a Lhasa, capitale del Tibet. Immagini sospese in una dimensione atemporale che lasciano trapelare il vero atto di resistenza: quello indicato dai monaci buddisti tibetani attraverso la meditazione e la contemplazione. Come sostiene il Maestro Chogyal Namkhai Norbu nell’insegnamento della Dzogchen (o Grande Perfezione), le pratiche della meditazione comportano un lavoro della mente per permettere all’individuo di entrare nello stato della contemplazione. Diversamente dalla meditazione, però, dove la mente è impegnata in un qualche lavoro, nella contemplazione non c’è alcuno sforzo, niente da fare o da non fare.
INTERVISTA A IRENE KUNG
In Rough tough and mystic. Da un viaggio in Tibet e Yunnan ti sei espressa attraverso la fotografia a colori. Una novità rispetto alla tua visione, che solitamente è in bianco e nero.
Anche per me è stata una novità, una sorpresa. Queste cose mi succedono intuitivamente, anche se sicuramente sono stata influenzata da quel luogo, dove ho vissuto un’esperienza particolarmente forte. È un territorio molto duro in cui la sopravvivenza è difficile. Mi riferisco al Tibet ma anche allo Yunnan con cui confina. Il paesaggio si confonde un po’, ma il Tibet è più duro perché è ancora più alto, più arido e fa molto freddo. I tibetani non hanno risorse, salvo adesso che sono arrivati i cinesi ed è un po’ cambiato tutto. Ma questo è un altro argomento. Sono stata molto colpita dalla durezza della vita, ma anche dalla capacità di sopravvivere della gente. Mi ha intrigato il fatto che, malgrado le difficoltà, loro riescano a essere allegri, positivi. Da lì ho cominciato ad analizzare meglio il modo in cui i monaci comunicano con la gente, il loro pensiero, la loro spiritualità, che è a un livello molto elevato. Anche le persone semplici hanno dei meravigliosi pensieri di pace, ricerca del sogno, capacità di astrarsi. La combinazione di questi due estremi è molto affascinante. Da sempre, anche per problemi che ho avuto nella mia vita, mi sono rifugiata nel sogno attraverso la pittura o la fotografia, che per me rappresentano una soluzione. Più che concentrarmi sulla denuncia del male, come fanno molti artisti ‒ che è certamente un grande valore, perché il male va denunciato ‒, personalmente cerco una soluzione nell’astrarsi e nel sognare.
Tornando al colore, cosa ti ha portata a usarlo? Hai scelto anche formati diversi, tra cui quello verticale che ricorda il rotolo di carta usato in Oriente per la pittura e la calligrafia.
Esatto. Dovevo esprimere quella forza e quella durezza, ma mi è venuto meglio con la fotografia a colori. Per esempio in Yangtse flags le bandiere rosse sembrano fuoco. Erano effettivamente di quel colore, ma ho accompagnato il paesaggio perché l’effetto cromatico fosse ancora più forte. Un effetto che è pittorico. Alcuni colori li ho trovati lì, altri li ho evidenziati. Lavoro sempre sulle foto dopo che le ho fatte.
Vorrei entrare ancora un po’ in quell’atmosfera rarefatta che si coglie in tutte le opere di Rough tough and mystic. Del resto astrazione e sospensione sono elementi che, come dicevi, appartengono da sempre al tuo linguaggio artistico.
Vengo dalla pittura. Passando alla fotografia ho semplicemente utilizzato un altro strumento, ma la mia testa funziona sempre nella direzione dell’immagine che mi piace o che sto cercando. Sia la sospensione che l’astrazione mi portano a sognare e offrono più risposte. Non c’è solo la descrizione del luogo e ognuno, poi, nel vedere le immagini, ci può mettere del suo.
LA FOTOGRAFIA DI IRENE KUNG
Per te che vivi in un villaggio di montagna com’è stato relazionarti alla natura così imponente del Tibet?
È stato curioso. Mentre ero lì non ho pensato a casa mia. Lassù le condizioni sono molto difficili. Prima di partire avevo seguito per due mesi, tutti i giorni, un allenamento grazie al quale ero in piena forma, ma sopravvivere in certi luoghi è stato duro anche per me. Abbiamo camminato molto sui sassi, io dovevo fare le foto e poi l’aria diventava sempre più rarefatta. Non sopporto bene l’altitudine, quindi avevo sempre dei mal di testa terribili. Anche dormire era impossibile perché mancava l’ossigeno. Tecnicamente, poi, era complicato perché, in qualche modo, dovevo caricare le batterie della macchina fotografica. Insomma, diciamo che ho dovuto continuamente risolvere dei problemi. Dovevo abituarmi al luogo, riuscire a mangiare quello che mi davano che non per forza era così attraente… Quando sono tornata nel villaggio dove vivo, a 1300 metri, le montagne lì intorno che fin da bambina sono le “mie montagne” mi sembravano delle piccole colline. Era tutto dolce, facile. Il mio villaggio, Saanenmöser nel cantone di Berna (Svizzera tedesca), è molto piccolo e mi è sembrato molto “gentile” rispetto al Tibet.
Dicevi di esserti avvicinata in maniera molto intuitiva a questo lavoro fotografico.
Sì. Cerco sempre di lavorare in questo modo e magari, successivamente, di razionalizzare. Devo poter sentire una mia verità quando vedo i luoghi o anche i monumenti. Guardo con attenzione il posto in cui mi trovo, studio la luce, ma non vado a leggere l’essenza. Questo lo faccio dopo. Riesco a lavorare meglio procedendo per intuito. In questo modo trovo che il lavoro sia più bello. È una scoperta continua, un cercare visivamente l’emozione. Elimino quello che non mi interessa vedere e mi concentro molto su quello che mi interessa.
Nella tua metodologia di lavoro affidi i tuoi pensieri a un diario, prendi appunti?
No, è tutto nell’immagine. Quando ero bambina non avevamo i cellulari e, durante le vacanze, ci scrivevamo delle letterine. Personalmente non ho mai scritto una letterina, ho sempre disegnato quello che facevo. Non sono molto brava a scrivere, mi è più facile raccontare con un’immagine.
DALLA PITTURA ALLA FOTOGRAFIA
Facendo un passo indietro nel tempo, quando è avvenuto il passaggio dalla pittura alla fotografia?
All’epoca dipingevo e abitavo sul Lungotevere, dall’altra parte dell’isola Tiberina e qualcuno portò a casa mia Valentina Bonomo che non conoscevo. Lei fece il giro di casa e guardò i quadri abbastanza grandi che avevo dipinto, ma non disse nulla. Ero un po’ delusa. Avevo tirato fuori anche due o tre piccole foto. Valentina si soffermò a guardarle e mi disse che se avessi fatto un lavoro fotografico mi avrebbe fatto subito una mostra. Lei lo disse come battuta, ma io sono svizzera e il giorno dopo comprai una buona macchina fotografica e pensai a una mostra per la sua galleria. Poi capii che lei non era effettivamente così pronta, però parlammo per telefono e lei mi chiese, semmai avessimo fatto una mostra, a quale tema stessi pensando. Le dissi che stavo già lavorando sui monumenti di Roma. “No, Irene, i monumenti di Roma li hanno fatti tutti. Non faccio una mostra sui momenti di Roma”, replicò. Rimasi malissimo perché ero determinata e sapevo come volevo fotografarli. Andai in galleria e le chiesi se poteva venire con me per una mezz’ora. Valentina non ne aveva tanta voglia però fu gentile. La portai nel mio studio. Avevo messo sul tavolo la stampa gigantesca del Pantheon. Lei entrò, si appoggiò alla colonna e osservò da lontano quella foto del Pantheon. “Certo che facciamo i monumenti romani!”, disse. La mostra fu inaugurata alla fine del 2006 e durò fino a febbraio 2007.
Roma è una città difficilissima da fotografare, qual è stata la tua chiave di lettura e com’è continuato nel tempo il tuo approccio ai monumenti?
Ho cominciato con il Pantheon perché è il monumento più impressionante. All’epoca dipingevo soggetti che uscivano dalla tela, quindi ho fatto così anche con il Pantheon, utilizzando la luce. All’inizio la gente quasi mi aggrediva perché manipolavo l’immagine, ma per me era automatico. Ho sempre dichiarato il mio modo di lavorare, ciò che conta per me è il risultato finale. Quando fotografo i monumenti cerco un punto preciso che per me è il più significativo. Del Pantheon ho fotografato la cupola dalla terrazza della Biblioteca del Senato. Non scelgo sempre il momento o l’orario, perché quando si viaggia per una questione di permessi o di spostamenti non è sempre possibile, però di preferenza ho il sole a 180 gradi dietro di me, oppure fotografo la sera quando c’è più densità.
Hai fotografato centinaia di monumenti e architetture di tutti i tempi, in geografie diverse del globo terrestre. Mi viene in mente, in particolare, il meraviglioso profilo del Taj Mahal ad Agra che emerge dal buio: c’è un luogo che ti ha ispirato più di altri?
Roma! Senza alcun dubbio. Ancora oggi torno a fotografarla. È infinito quello che si può fare.
Ti capita anche di fotografare lo stesso monumento in tempi diversi?
Cerco di evitarlo perché, emotivamente, non funziona per me. Sarebbe come scimmiottare me stessa. Quando non ho più l’emozione iniziale non ottengo un buon risultato. Mi capita, lo faccio. ma sento di non andare avanti. Anche con gli alberi è così. Torno su quelli particolari perché li conosco e sono come amici che vado a trovare, ma quando li fotografo nuovamente non va mai bene. Mi manca l’emozione del primo impatto, quella che proteggo tanto.
Manuela De Leonardis
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