Che cosa c’entrano i selfie con i meme?
Ormai il selfie è una pratica comune, al punto da appiattire i volti in un grande flusso di immagini indistinguibili. Ma con quali conseguenze?
“Qual è la differenza tra un selfie e un autoritratto?”, si chiedeva nel 2015 Annalise Stephan. Esperti di storia dell’arte, sociologi, studiosi di varie discipline convengono nel separare le due pratiche (hanno un pubblico e un ruolo sociale diverso), anche se in comune a volte potrebbero avere ciò che i linguisti chiamano deittico: eccomi qui! Cioè un atto dimostrativo, o una prova d’esistenza (sono io!). In questa prospettiva, che vede interfacciare il particolare e il globale, si fa strada una specie di arte popolare attraverso una carta d’identità digitale. In tal senso il selfie è “una nuova forma di conversazione” (Mirzoeff) o una forma contemporanea di comunicazione di massa; una comunicazione muta però, che assorbe tutta l’energia del sociale, senza più rifrangerla. Questo aspetto pone il selfie alla stregua di una pratica compulsiva del consumo di immagini, come accade con i meme, cioè con la convergenza del mentale e del mediale.
Là dove tutti i visi si uniformano nell’algoritmo che li traduce – la forma del contenuto – affiora una specie ancora indefinita d’immagine romanzesca: un racconto dell’io, fittizio o meno che sia. Questo fatto, decisivo, incide sull’impresa della propria apparenza. Il selfie è in tal senso una specie di promozione sociale del sé che succede ai ben noti 15 minuti di celebrità di Warhol.
IL SELFIE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Negli ultimi anni si è scritto molto su questo “fatto sociale totale”. È in questa prospettiva che il selfie ha tutte le caratteristiche di un fenomeno cultuale, ma disincantato, senza aura – non è più l’apparizione irripetibile di una lontananza, ma l’ossessiva ripetizione di un gesto. Mutuando un’espressione di Benjamin, è una nevrosi che produce l’articolo di massa dell’economia politica digitale. In altre parole, una rappresentazione coatta – o una coazione a ripetere.
E se ieri il ritratto rappresentava l’energia calda della soggettività con le sue prerogative psichiche – emanava un chiaroscuro psicologico –, oggi la sua trasformazione in selfie riflette tutta l’energia fredda del sociale. Vale a dire liquida l’indefinito (o infinito) dello sguardo che ossessionò per un’intera vita artisti come Rembrandt e Giacometti. Condizione che è ben espressa da queste parole di Lévinas: “Il volto è presente nel suo rifiuto di essere contenuto”. Cioè, si rifiuta di essere identificato, messo in divisa, e per ciò è contestazione. D’altra parte, il sorriso congelato nel selfie non nasconde più i tratti enigmatici che al tempo di Leonardo facevano la differenza ma, per riprendere un’espressione di Benjamin, “è quello corrente nel keep smiling e funge, per così dire, da paraurti mimico”. Alcuni hanno voluto vedere nel selfie una forma di narcisismo, tuttavia occorre sottolineare che, se fosse così, si tratterebbe allora di capire la natura di questo narcisismo ben integrato. Certo, non ha nulla a che vedere con l’eresia dell’amore di sé, per usare le parole di Paul Zweig, cioè nulla a che vedere con l’individualismo sovversivo che ha segnato la cultura occidentale, dove narciso è una specie di avvocato del diavolo che si sottrae a ogni formattazione sociale. Un eretico insomma, la cui natura irriducibile alle convenzioni sociali ne fa una specie di genio del male.
“Il selfie è una specie di promozione sociale del sé che succede ai ben noti 15 minuti di celebrità di Warhol”
SELFIE E REALTÀ
D’altra parte, questo narcisismo del selfie si esprime spesso non in un sorriso, ma in una smorfia, che è un’oltranza dell’espressione, un al di là del segno familiare. Agisce come una maschera ludica, ma senza gli attributi della ribellione che nel passato si dava a essa. Alcuni autori hanno visto nel selfie “la prova visiva di un cataclisma del sé” (Geert Lovink), che ratifica la percezione sociale di ciò che Christopher Lasch ha chiamato l’“io minimo”. Ovvero apparizioni non necessarie che fluttuano nel cosmo digitale in attesa di essere intercettate, e dove la referenza iconica del ritratto è dissolta. Se ci fosse un Merleau-Ponty o un Lacan, direbbero che il selfie, pur avendo le caratteristiche di uno speculum mundi, tuttavia fallirebbe in questa funzione nella misura in cui non istituisce il soggetto come coscienza.
Sulle tracce di questo fallimento, per certi aspetti i selfie attualizzano l’intuizione di Beckett che dà a vedere la nudità disperata dell’umanità: “tutto quello che sono è qui”. Non c’è altra realtà oltre a ciò che vedi. O, come disse Burroughs, “non è il caso di aggiungere nulla”.
Oppure, seguendo le orme di Donald. H. Winnicott, vedere nei selfie delle immagini “transizionali” che, coniugando arte e gioco, favoriscono la separazione tra individuo e società; è il trionfo della solitudine sotto le false apparenze di un keep smiling. Forse ha ragione Baudrillard. La realtà con le sue referenze individuali – l’io, il soggetto ecc. – non è altro che un resto, una funzione inutile, un residuo dell’accanimento tecnologico che sta segnando la contemporaneità. E la pretesa del mondo digitale di liquidare tecnicamente la realtà ha qualcosa del negazionismo. Il volto concreto, inteso come frequenza psichica, luogo di un campo di forze, o come mappa del soggetto diveniente, cioè come un differenziale, è negato dalla perfezione tecnologica. La mimesis è adesso memesis.
Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #70
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