Fotografare i margini. La mostra di Graziano Arici a Venezia
Oltre quattrocento fotografie vanno in mostra alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, restituendo lo sguardo di Graziano Arici sul mondo. Fra denuncia sociale e sottili inquietudini
Dopo la mostra al Musée Réattu di Arles nel 2021, le fotografie di Graziano Arici (Venezia, 1949) vengono esposte a Venezia, città dove è nato. L’archivio di Arici è vastissimo e nel 2017 il fotografo ha scelto la Fondazione Querini Stampalia di Venezia come custode del prezioso lascito, motivo per cui non poteva esistere luogo migliore di questo per far conoscere al pubblico gli scatti realizzati in oltre quarant’anni, dal 1979 al 2020, immagini che catapultano lo sguardo oltre Venezia, in un viaggio lungo l’Italia e in varie tappe sparse per l’Europa.
LA MOSTRA DI GRAZIANO ARICI A VENEZIA
Già dal titolo si percepisce una grande forza attrattiva: Now is the Winter of our Discontent è la frase che dà inizio al Riccardo III di Shakespeare, ripresa poi da Steinbeck per farne il titolo di un romanzo. Ma se nel dramma shakespeariano i raggi di un sole sfolgorante dissolvono il grigiore dell’inverno, negli scatti di Graziano Arici le luci sono puntate ai margini della società, sulle cose e sulle persone costrette a vivere nell’ombra, per questo molti degli scatti sono in bianco e nero.
Daniel Rouvier, curatore della mostra insieme ad Ariane Carmignac, sottolinea quanto il lavoro di Arici sia ricco non solo esteticamente e tecnicamente, ma anche e soprattutto a livello intellettuale: “Non può essere ridotto a semplice sguardo documentario sul mondo, testimonianza della sua evoluzione, delle sue ricchezze e delle sue bizzarrie. Questo filo conduttore esiste, ma il fotografo lo trascende, rendendo ogni sua immagine un’opera fotografica a pieno titolo, sia plasticamente che emotivamente”.
Nove serie fotografiche compongono la mostra e ognuna lascia un segno nella memoria di chi le osserva attentamente. “Il fotografo non cerca né trova le immagini, piuttosto le raccoglie, le analizza, le sperimenta e le mette insieme. La serie si costruisce, si sviluppa, diventa espressione del pensiero. Immagini fino ad allora indipendenti partecipano ormai a un discorso articolato”, continua Rouvier.
Come Angels, serie del 2009 in cui l’autore riprende negativi fotografici su lastre di vetro rinvenuti presso il manicomio dismesso dell’Isola di San Servolo a Venezia, ritratti di pazienti divenuti fantasmi, volti anonimi e dimenticati, ma che grazie al lavoro di Arici diventano profili di angeli immortalati su uno sfondo che l’usura dei negativi fa rassomigliare a un cielo stellato. Quasi un riscatto per donne e uomini che hanno passato la vita su un’isoletta minuscola e che adesso si ritrovano al centro di una sala, volti in primo piano che bucano i pensieri di chi li guarda.
Nella serie Lost Objects, iniziata nel 2018, il fotografo concentra l’attenzione su oggetti dimenticati, che poi diventano persone dimenticate, rifiutate dal mondo come cose insignificanti e inutili. È qui che si coglie la silenziosa ma graffiante denuncia sociale di cui è intriso il lavoro di Arici.
LA FOTOGRAFIA SECONDO ARICI
Ci sono poi Caarnival, in cui sullo sfondo del carnevale di Venezia risaltano alcuni dei partecipanti, tutti inquadrati dal basso, in un atmosfera lugubre e tutti muniti di macchina fotografica, a mettere in risalto l’artificiosità della manifestazione; Polaroids, vedute di esterni o di stanze di albergo in cui il fotografo ha soggiornato; Als das Kind Kind war ‒ titolo ripreso dal poema di Peter Handke ‒, dove solo la figura del se stesso bambino appare nitida al centro di immagini sfocate nella mente dell’autore; The State of Things, scatti dal 1986 al 2019, fatti in luoghi diversi, che evidenziano una certa standardizzazione del mondo e dei soggetti fotografati; Le Grand Tour, serie frutto di un pellegrinaggio artistico nelle principali città d’Italia, ritratte con uno sguardo spietatamente obiettivo; Heart of Darkness, immagini trasmesse dalla televisione e catturate dalla fotocamera direttamente dallo schermo, una serie che mostra un’umanità disumana, le atrocità delle guerre, immagini violente e inquietanti. Spazio infine a The Winter of our Discontent: quattro lastre di vetro che formano un panorama di un paesaggio inondato. Quest’ultima immagine, che da sola costituisce la serie dalla quale prende il titolo l’intera mostra, è l’unica ad avere un formato diverso: tutte le altre foto sono di forma quadrata, perché nel rigore geometrico di questo formato l’occhio dello spettatore non può perdersi, ma rimane concentrato sulla riflessione dell’autore.
Anita Capecchi
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