L’estate di Arles nel segno della fotografia. Report dal festival Les Rencontres
Dal rapporto tra uomo e natura alla libertà femminile, alla memoria collettiva. Solo alcuni dei temi trattati dai fotografi presenti ad Arles per uno dei festival di fotografia più famosi e longevi del mondo
Ogni anno richiama in Provenza il popolo della fotografia dai quattro angoli del mondo. Con quarantacinque esposizioni, talk, book fair, workshop, serate, letture portfolio e tavole rotonde la 54esima edizione del Festival Internazionale Les Rencontres d’Arles si è aperta lo scorso 4 luglio e proseguirà fino al 24 settembre. Tema del 2023: “Uno stato di coscienza”, un invito a renderci conto della realtà che ci circonda e a prenderne consapevolezza. Musa del Festival è la femminilità giocosa e liberatoria della finlandese Emma Sarpaniemi, che con il suo Self-portait as Cindy, in calze rosa confetto e maglietta gialla è l’immagine iconica di questa edizione: un invito a guardare il mondo al di là di ogni direzione preconfezionata e di ogni stereotipo sociale e culturale.
Les Rencontres d’Arles. I temi del Festival di fotografia
Un tam-tam visivo caleidoscopico che porta lo sguardo sui grandi temi del nostro tempo: l’emergenza ecologica, l’abbattimento degli stereotipi, i diritti e l’uguaglianza sociale. Se la fotografia spettacolare e cinematografica di Gregory Crewdson (New York, 1962) ci mette davanti al tramonto del sogno americano con immagini di hopperiana solitudine, nuove sono le urgenze che si impongono alla nostra attenzione: si parte dal rapporto tra uomo e natura, dai ritratti fluviali di Yohanne Lamoulère (Nimes, 1980) che risale il Rodano a bordo di Anita all’ampia collettiva Grow up che riunisce lavori con un particolare focus su un Sud America sempre più sfruttato, luogo di un legame ancestrale con lo Spirito profondo della natura, sulle cui tracce si muove la ricerca di Aya, di Yann Gross & Arguiñe Escandón. Al nostro mondo, che sta radicalmente ridisegnando modelli e relazioni sociali, guarda con nitida freschezza la fotografia del Nord Europa riunita in Søsterskap, esposizione tra le più interessanti dell’edizione, che ci ricorda che la libertà femminile nasce da un ripensamento dell’intera struttura sociale, a partire dal diritto maschile alla genitorialità cui è dedicata Fathers di Verena Winkelmann (Levanger, 1973). Resta cardine la riflessione sul tema dell’identità, cui in modo diverso ma parallelo, sono dedicate due grandi mostre: Constellation, la retrospettiva di più di 450 immagini che la Fondazione Luma dedica all’umanità autentica di Diane Arbus (New York, 1923 – 1971); il piccolo gioiello di 340 foto vintage (in parte acquisite da Cindy Sherman!) rinvenute in un mercatino di New York, che raccontano l’esperienza incredibile di Casa Susanna, ritrovo segreto di un gruppo di travestiti nell’America maccartista degli Anni Cinquanta. Fotografia d’autore e ritratti domestici, parte di una stessa storia americana che parla di identità e del diritto fondamentale alla libertà di espressione.
La fotografia come memoria collettiva
Dai diritti individuali a quelli umanitari, dall’Iran all’immigrazione: Entre nos murs –Teheran, Iran 1956-2014, del duo Sogol&Joubeen, racconta i cambiamenti sociali a Teheran dagli Anni ‘60 alla rivoluzione islamica, visti dalla dimensione privata di un’abitazione; mentre centinaia di volti anonimi di migranti, in Ne m’oublie pas, testimoniano un dramma in atto, attraverso foto di famiglie disperse ritrovate nello Studio Rex, un laboratorio fotografico alle porte di Marsiglia oggi dismesso, primo approdo dei migranti in cerca di identità. Fotografie di case e umanità a ricordarci che la Storia è fatta da storie e vite di persone come noi.
Nuove geografie per la fotografia emergente
Se da sempre Les Rencontres sono un indicatore di tendenza, è a un Oriente dinamico e capace di nuove narrazioni e punti di vista che guarda la fotografia emergente. Tra gli artisti in gara per il Prix decouverte diretto quest’anno dalla curatrice Tanvi Mishra (Nuova Delhi) spicca l’indiano Soumya Sankar Bose (Midnapore, 1990), che si aggiudica il premio del pubblico grazie a un linguaggio originale e poetico di voci e visioni che affiorano dal buio, tra sogno e memoria. Ironica, coloratissima e pop è invece Hien Hoang (Quang Ninh, 1990), artista vietnamita di base in Germania, che gioca con gli stereotipi sulla cultura orientale in Occidente: un capovolgimento del punto di vista che porta il nostro sguardo sul futuro verso un vicinissimo nuovo orizzonte.
Emilia Jacobacci
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