Piero Gemelli si racconta. Il fotografo di moda che è anche architetto
La formazione da architetto, l’incontro con Oliviero Toscani, gli inizi a Vogue, una lunga e fortunata carriera come fotografo di moda, beauty e still life
“Le donne sono amate dal fotografo e vengono colte per quello che loro permettono a lui di vedere; sono donne bellissime, scultoree oppure adornate di gioielli, pizzi, e moderni cimeli. Un mondo ideale e immaginario che non ha apparentemente riscontro con la realtà e con la storia, ma che con essa inevitabilmente si fonde”, scrive Maria Vittoria Baravelli a proposito del lavoro di Piero Gemelli (Roma, 1952; vive e lavora a Milano). Il fotografo di moda, noto per il suo lavoro nel settore moda, beauty e still life, soprattutto per Vogue, quest’estate espone il suo lavoro nella mostra Corpo espressione del sentimento nelle sale del Castello Ducale di Corigliano Calabro, nell’ambito della XX edizione di Corigliano Calabro Fotografia diretto da Gaetano Gianzi e realizzato dall’Associazione Culturale Corigliano per la Fotografia. Lo abbiamo intervistato.
Intervista a Piero Gemelli, il fotografo architetto
Qual è il rapporto tra fotografia e architettura, considerando la tua formazione di architetto?
Ritengo che la mia formazione di architetto sia il punto fondamentale, sia sul piano teorico che sul senso del volume inteso come spazio da riempire, ma anche come spazio condizionante di ciò che è presente intorno. La fotografia si muove tra una supposta identità di realtà assoluta e indiscutibile e una possibile invenzione verosimile, oggi ancor più presente, che a volte diventa persino più reale della realtà. L’architettura mi ha formato perché è un modo di vedere il mondo, e io lo vedo in 3D. Quando scatto, penso sempre allo spazio in una dinamica di costruzione, facendo capire che c’è un nesso tra ambiente e immagine. E quando mi è stato chiesto di progettare anche l’ambiente le foto sono diventate parte dell’architettura stessa.
In che senso?
Nella fotografia si deve lavorare in maniera bidimensionale, giocando con luci, ombre e prospettive, e il gioco può diventare molto forte, un po’ come gli effetti dell’anamorfosi. Si costruiscono delle realtà e, nella finzione, la fotografia aiuta ad allungare la prospettiva di un ambiente, a dare luminosità a un posto che non ce l’ha: si può usare la fotografia come elemento architettonico. Ma l’architettura, per me, è legata anche alla mia famiglia dove nessun altro è fotografo o architetto, però il mio papà era molto appassionato di cultura visuale, quindi ho avuto una certa vicinanza all’arte. Arriva, poi, un momento in cui tutto si parla. La mia fotografia è molto centrata su un pensiero classico di corpo statuario come elemento che rappresenta la bellezza e il modo in cui assemblo gli oggetti segue delle linee di memoria e d’inconscio che si possono legare al processo surrealista.
Prima del workshop con Olivero Toscani che segna una svolta nel tuo percorso professionale, qual era stata l’evoluzione di questa passione per la fotografia?
Gli Anni Sessanta sono quelli del boom della fotografia amatoriale, si guardavano le macchine fotografiche, le riviste. Oggi i ragazzi fanno i dj, allora facevano le fotografie. Anch’io avevo la passione per la fotografia, che mi ha dato una possibilità di riscatto: allora non pensavo sarebbe stata il mio futuro, facevo le foto alle compagne di scuola. La fotografia era un modo per fermare un momento, magari la passeggiata al mare con la ragazza che mi piaceva. Per la maturità i miei genitori mi regalarono una macchina fotografica seria, la Asahi Pentax Spotmatic, che usava anche David Hamilton. Invece, il primo apparecchio che mi comprai da solo fu una Zenit. Quando mi sono iscritto alla facoltà di architettura ho continuato a usare la fotografia per fare rilievi dei posti, documentare edifici. Intanto partecipavo ai concorsi: vinsi una serie di piccoli premi e pure una medaglia d’oro, ma soprattutto una borsa di studio per frequentare l’Istituto Europeo di Design – IED che nel ’73 aveva aperto a Roma la propria sede. Finito il corso mi fu chiesto di insegnare fotografia, camera oscura, chimica, ottica e anche progettazione dell’immagine grafica. Ho insegnato fino a quando ho lasciato Roma. Collaboravo anche con l’agenzia Schema specializzata in multivisione e facevo dei piccoli servizi per riviste di uncinetto e cose del genere.
Piero Gemelli e la fotografia di moda
Arriviamo quindi a Venezia 79 la fotografia, uno dei più grandi eventi in Italia dedicato alla fotografia.
Sapevo di questo grande evento con workshop tenuti da grandi fotografi. C’era posto in quello di Oliviero Toscani (La moda non è solo un vestito – NdR) e mi iscrissi. All’inizio eravamo quaranta persone, ci fu una selezione naturale, anche perché Toscani fotografava di notte e non tutti avevano voglia di stare in piedi alle tre del mattino. Alla fine della settimana eravamo solo in tre o quattro; tra loro ricordo Paola Mattioli. Oliviero mi disse di lasciargli il numero di telefono perché mi avrebbe chiamato. Quando venne a Roma, effettivamente, mi chiamò: cercava un posto che avesse delle colonne con il sole dritto in faccia più o meno intorno alle quattro del pomeriggio. “Dove andiamo?”, mi chiese. “Non lo so”, risposi. Questo, però, mi fece capire che bisogna progettare le cose. Mi portò comunque con sé: passai una settimana con lui, mi chiedeva dei pareri e io gli rispondevo, ma non facevo minimamente l’assistente. Ero un “gradito ospite”. L’ultimo giorno, venne nel mio studio, guardò le mie foto, una serie di scatti polaroid piccolini che avevo fatto in camera oscura da diapositive di una sfilata di Valentino: mi ero inventato un meccanismo per cui proiettavo la diapositiva sulla polaroid facendo delle piccole composizioni che di fatto erano astratte. Gli piacque molto sia il procedimento che l’occhio della composizione. Mi disse che sarei dovuto andare a New York, Parigi o almeno a Milano, per lavorare davvero. Mi toccò nell’orgoglio e dopo la laurea, nel luglio 1981, partii per Milano.
Proprio nel 1981, a Milano, sei entrato per la prima volta nella redazione di Vogue Italia.
Arrivai a Milano nel pieno della moda italiana. Avevo dei contatti, andai prima alla Rizzoli. Poi alla sede di Vogue. Arrivato lì, dopo una serie di giri, finalmente l’art director guardò le mie foto con un po’ di leggerezza, ma fu incuriosito dalle polaroid. Mi tennero a Vogue per un po’ di tempo facendomi fare dei piccoli lavori: la prima cosa fu una bottiglia di profumo per una rubrica. Ero libero di fotografare come volevo e costruii una specie di architettura, fotografando quella bottiglia in prospettiva con un gioco di luci. Il loro atteggiamento cambiò, mi affidarono tre foto di tre rossetti, da pubblicare su Vogue Italia. Ne piacque una, in cui il rossetto è scalato da uno scarabeo verde: uscì nella pagina di destra nel servizio alta moda. Un mese dopo la pubblicazione della rivista ricevetti una chiamata da New York, mi volevano da Estée Lauder per una campagna. E partii per New York. Poco dopo Vogue mi affidò un incarico di still life e bellezza.
Nel momento in cui hai acquisito consapevolezza del tuo valore di fotografo, hai continuato a formarti, guardando anche il lavoro di altri autori?
Quando arrivai a New York, nei tempi morti andavo tutte le mattine alla New York Public Library di 5th Avenue, prendevo le annate di Vogue, le sfogliavo e prendevo appunti. Dopo i primi due anni, però, decisi di smettere e non ho guardato più nulla. Ricordo che Toscani una volta disse qualcosa come “per sapere cosa faccio leggo il giornale”. In effetti il modo migliore per me era guardarmi intorno partendo da dentro. Ho sempre costruito partendo dalle mie conoscenze, ma forse ancor di più dal mio inconscio.
Manuela De Leonardis
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati