Le conseguenze della guerra nella mostra sul fotogiornalismo a Reggio Emilia
L’obiettivo di Ivor Prickett, reporter del New York Times, non si focalizza direttamente sui conflitti, ma sulle loro conseguenze, con la tragedia delle migrazioni protagonista di potenti allegorie dell’epoca moderna
No home from war: il titolo della personale di Ivor Prickett (Cork, 1983) alla collezione Maramotti di Reggio Emilia è fortemente simbolico delle scene ritratte dal fotoreporter irlandese. L’obiettivo infatti non si focalizza direttamente sul conflitto, quanto sulle sue conseguenze. Frammenti di vita quotidiana sono i soggetti più frequenti, ma si tratta di una vita quotidiana ipotetica, resa aleatoria e quasi impossibile dalla guerra. Avvertenza per il visitatore: diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare in un regno dell’arte contemporanea come la collezione Maramotti, non siamo qui nell’ambito della “fotografia d’arte” ma del puro fotogiornalismo – ovviamente quello di ultima generazione, che attinge pienamente a espedienti estetici (l’idea pittorica di “quadro nel quadro”, ad esempio, o svariati riferimenti a generi della pittura antica) per rendere più potente la testimonianza e la documentazione.
Il fotogiornalismo di Ivor Prickett alla Collezione Maramotti
Pluripremiato, da anni collaboratore del New York Times, Prickett porta alla Maramotti 50 fotografie eseguite dal 2006 in poi, distribuite nelle sale seguendo la cronologia dei suoi reportage (Croazia e Serbia, Abcasia, Siria, Iraq e infine Ucraina). Alla testimonianza degli eventi bellici si affianca, con la stessa importanza, la cronaca delle migrazioni forzate. Il modulo narrativo più ricorrente è quello della rappresentazione di una ostinata, impossibile intimità. L’idea di abitazione, di casa, di quotidianità diventa paradossale nelle immagini di palazzi sventrati, di popoli che si ritrovano a essere “intrusi” di passaggio in luoghi inospitali. I soggetti rimangono come “incastonati”, intrappolati nella geometria assurda di luoghi che conservano solo i contorni di ciò che erano, lo scheletro della loro struttura precedente.
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Le foto paradigmatiche della guerra
Il realismo assoluto non è certamente tra gli obiettivi di Prickett: le immagini parlano il linguaggio costruito dell’allegoria, sacrificando in gran parte l’idea di “attimo improvviso colto dall’obiettivo”. L’atmosfera di sospensione che caratterizza tutti gli scatti, come se le dinamiche del movimento fossero state congelate a favore di un’immagine paradigmatica, evita dunque di indugiare nella ricerca della pietà da parte di chi osserva. Si genera invece una sensazione di instabilità costitutiva del mondo odierno, dove nessuno è al sicuro (né innocente) e dove le narrazioni ufficiali non hanno realtà effettiva, se osservate “dal basso” – a contatto con il terreno, che sia di guerra o di svolgimento della vita quotidiana.
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Stefano Castelli
Stefano Castelli (nato a Milano nel 1979, dove vive e lavora) è critico d'arte, curatore indipendente e giornalista. Laureato in Scienze politiche con una tesi su Andy Warhol, adotta nei confronti dell'arte un approccio antiformalista che coniuga estetica ed etica.…