Alessandro Cinque, il fotografo documentarista che ci racconta il Sudamerica
Dal Perù alla Bolivia al Cile, per indagare la relazione tra uomo e natura con la fotografia documentaria, ma anche gli squilibri sfrenati tra vittime e carnefici. Il ritratto del fotografo Alessandro Cinque in questa intervista
Alessandro Cinque è nato a Orvieto nel 1988. Da sei anni si è trasferito in Perù. Gli abbiamo chiesto di parlarci del lavoro che ha presentato per il Pictet Prix, giunto alla sua decima edizione, quest’anno incentrato sul controverso rapporto dell’uomo con il nostro pianeta.
L’ambiente è uno dei temi caldi del presente…
Da sempre sono interessato a temi che raccontano la relazione tra l’uomo e il territorio in cui vive. Mi sono trasferito in Perù perché sentivo il bisogno di liberarmi della visione esotica euro-centrica, per non correre il rischio di cadere in un colonialismo dell’immagine, lo stesso colonialismo che critico nel mio lavoro. Cerco di mettere a confronto l’importanza del territorio andino per le popolazioni indigene, che lo vivono e quella che ha per le imprese multinazionali minerarie straniere che lo sfruttano.
Come?
Due punti di vista differenti, per lo stesso luogo. Da una parte l’importanza della relazione dell’uomo con la terra (Pachamama), che è divinità̀ nella cultura Alto-Andina, e dall’altra la corsa al capitalismo sfrenato, fatto da imprese minerarie straniere, avvantaggiate da politiche neoliberali che hanno influenzato le economie dei paesi sudamericani dal dopoguerra a oggi. Sono scioccato nel vedere come secoli di colonizzazione da parte degli Spagnoli non abbiano dato vita a una responsabilità̀ sociale da parte delle imprese straniere, i nuovi colonizzatori dei territori. Sono cambiati i carnefici, ma non le vittime: gli indigeni Quechua che vivono da secoli in questi territori.
Come interagisci con tematiche così delicate?
In questo lavoro, purtroppo, provo a evidenziare come i paesi considerati del “primo mondo” cadono nell’ipocrisia quando difendono la salvaguardia dell’ambiente e la globalizzazione, ma allo stesso tempo si sentano autorizzati a sfruttare questi territori e a imporre un proprio modello socio-economico. Durante tutto il periodo relativo al mio lavoro non ho incontrato alcun estrattivismo minerario responsabile, capace di rispettare i territori, la cultura e i diritti umani. Il significato di questo lavoro è mostrare come il rapporto tra persone e territorio sia differente a seconda di chi lo vive. Secoli di privilegi di classe o di provenienza ancora oggi influiscono pesantemente su tutto.
Da anni ti occupi dell’America Latina, in particolare del Perù. Lavori sulle questioni ambientali e sociopolitiche e hai messo in luce il devastante impatto dell’attività̀ mineraria sulle comunità̀ indigene e sulle loro terre. Esplori il neoliberalismo e il neocolonialismo, che ha provocato una potente frattura fra uomo e natura. In questa campagna i diritti umani sono totalmente calpestati. Vuoi parlarci della tua esperienza?
Il Perù è il secondo produttore al mondo di rame e argento e uno dei principali produttori di oro. Sotto il sole cocente, l’opulenza metallica convive con una povertà̀ assoluta. Ancora oggi, le Ande ospitano le comunità̀ indigene più̀ povere del Paese. La fine del dominio coloniale ha posto le premesse per il neoliberismo. Sostenute dalle politiche di laissez-faire dello Stato, le multinazionali hanno esplorato le Ande alla ricerca di metalli. Il prezzo da pagare è stato la salute degli indigeni peruviani, le cui fonti d’acqua sono state deviate per l’estrazione o inquinate. Molti di loro hanno metalli pesanti nel sangue, che causano anemia, malattie respiratorie e cardiovascolari, cancro e malformazioni congenite.
Spiegaci meglio…
L’estrazione mineraria ha anche saccheggiato le loro ricchezze creando campi morti e uccidendo il bestiame, motore dell’economia della popolazione locale. Inoltre, ha avuto un impatto negativo sulla graduale perdita delle tradizioni.
In questi anni ho capito che uno dei problemi più gravi è la mancanza di un senso di appartenenza comune tra le persone che subiscono le conseguenze sociali e ambientali dell’attività̀ mineraria. Quando le compagnie minerarie iniziano a esplorare nuovi territori, le popolazioni indigene e i loro leader comunitari non sanno a cosa vanno incontro. Per sensibilizzare e incoraggiare il dialogo sull’attività̀ mineraria sostenibile, ho recentemente creato una fanzine in spagnolo e inglese che regalerò personalmente alle comunità̀ che visiterò nei prossimi viaggi.
Ci sono altri progetti?
Ora ho intenzione di creare un libro fotografico in inglese, spagnolo e quechua che documenti onestamente e fedelmente la situazione, per distribuirlo in tutto il mondo. È fondamentale restituire ai protagonisti del mio lavoro ciò che mi hanno dato. Vorrei indagare anche altre realtà sudamericane visitando le zone andine di Ecuador, Bolivia, Argentina, Colombia e Cile. Sono convinto che le proteste degli ultimi anni in questi Paesi siano legate allo stesso problema: il neoliberismo. La Bolivia dopo anni di Evo Morales ha rifiutato il governo imposto di Jeanine Áñez (suprematista bianca, adesso in carcere) ed è tornata, quando ha avuto la possibilità di votare, agli ideali politici di Morales eleggendo Luis Arce nel 2019. Nel 2021 in Perù ha vinto le elezioni Pedro Castillo, primo presidente campesino della storia del Paese, che ha basato la sua campagna elettorale sui diritti dei campesinos indigeni, contro la figlia del ex dittatore Fujimori e così è andata anche in altri paesi vicini. Le nuove generazioni sono stanche di politiche economiche neo-liberali e cercano alternative a sinistra.
Il lavoro che hai prodotto è frutto di un lungo viaggio di ventimila chilometri percorsi, di trentacinque comunità minerarie visitate, di dialoghi con le persone. Un lavoro di questo tipo non può non richiamare alla mente una figura come quella di Werner Bischof.
Sono realmente onorato che questo lavoro ti ricordi quello di Werner Bischof.
In realtà̀ è una mia grande fonte d’ispirazione. Bischof è morto proprio sulle
Ande peruviane, nel 1954, dopo aver realizzato la stupenda foto del bambino andino a Cuzco. Considero il suo lavoro utile per creare consapevolezza sociale. Cerco anche io di farlo e mi dispiace pensare che purtroppo le mie foto e le sue raccontino la stessa cosa come se il tempo non fosse passato.
Le tue immagini sono esteticamente molto belle, sottolineano il senso poetico, la poesia dei luoghi e della gente.
L’aspetto più̀ importante del mio lavoro è fotografare con dignità̀ la lotta delle comunità̀ indigene delle Ande, non creando dramma, ma rispetto della resilienza attraverso l’uso della poesia. Mio padre è un fotografo di matrimoni e mi ha trasmesso, fin da piccolo, la sua ammirazione per le grandi icone della fotografia classica Magnum. In seguito, la fotografia non solo è divenuta un pretesto per riconquistare il nostro rapporto ma ha innescato la passione che avrebbe guidato la mia vita da allora in poi.
Come?
In un momento in cui la rivoluzione tecnologica e l’intelligenza artificiale sfidano la nostra umanità̀, è più̀ che mai importante utilizzare un linguaggio capace di raggiungere un pubblico ampio e diversificato per denunciare sfide che devono essere affrontate a livello globale, come il cambiamento climatico o la violazione dei diritti umani.
Nel caso della fotografia documentaria, l’uso del linguaggio classico favorisce la sua democratizzazione, consentendole di essere compresa da un vasto pubblico. Allo stesso modo, secondo la mia opinione, aumenta anche le possibilità̀ di trascendere l’aspetto visivo e di generare un maggiore impatto sociale, che è, in definitiva, uno degli obiettivi principali del mio lavoro.
Cosa ti interessa maggiormente?
Affermarmi come narratore e non come autore.
Viviamo, per fortuna, in un mondo sempre più inclusivo e c’è stato un momento in cui qualcosa mi ha scosso a tal punto da farmi mettere in discussione la mia visione eurocentrica dell’arte e della fotografia. Ho guardato alla fotografia peruviana a quella di un monumento come Martín Chambi, ma anche a quella contemporanea. La mia ricerca è mossa dal desiderio di democratizzare la fotografia documentaria per alimentare la giustizia sociale.
Angela Madesani
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