Dialoghi di Estetica. La fotografia in fondo è solo una immagine. Parola a Claudia Corrent
Il senso di familiarità nelle immagini ci accompagna tutta la vita. Ed è al centro della ricerca della fotografa Claudia Corrent che spiega il ruolo che uno scatto ha nelle nostre interrogazioni sul mondo
Memoria e paesaggio sono i soggetti che animano le ricerche della fotografa Claudia Corrent (Bolzano, 1980). Nel 2023 è stata finalista del Premio Terna e ha ottenuto il terzo posto al Premio Siena; nel 2019 ha vinto il premio artisti della Provincia autonoma di Bolzano, il premio Riaperture, il Capalbiofotofestival ed è stata tra i finalisti del Combat Prize; nel 2015 è stata selezionata per una residenza promossa da Camera (Torino) con Henry Gruyar (Magnum) per la regione Piemonte. Ha esposto a Roma al Maxxi e a Palazzo delle Esposizioni, a New York e San Francisco presso gli Istituti Italiani di Cultura e alla Biennale della Fotografia Femminile a Mantova, tra gli altri. Collabora con Repubblica, Der Spiegel, Art, Courrier International, Die Zeit, Tageszeitung e organizza workshop didattici con bambini e adulti presso scuole, istituzioni e musei, tra cui Festival della mente di Sarzana, Mart, Palazzo Grassi, Fondazione Smart, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. In questo dialogo sono stati individuati alcuni dei temi ricorrenti nella poetica di Corrent: la familiarità, la fotografia come fatto originario e il suo legame con l’immagine, il ruolo della concretezza e delle ambizioni operative.
Le tue fotografie esprimono una certa familiarità: un profondo legame con qualcosa di già visto, con precedenti visivi che sembrano essere in qualche modo noti, pur essendo naturalmente novità.
Forse va così perché ogni immagine che abbiamo ne comprende molte altre. Ognuna richiama ad altre a seconda delle nostre culture, dei modi farle e condividerle. Ma questo non è che uno dei possibili legami che si possono rivelare, perché la fotografia consente anche di istituirne altri. Penso a tutte quelle che ha fatto ciascuno di noi nelle proprie famiglie. Quando si ritrovano, quelle fotografie le interroghiamo per coglierne il senso. Probabilmente, quella familiarità di cui parli ha le sue origini in quegli scatti che ci permettono di guardare indietro: perché, così facendo, si possono anche gettare le basi per immaginari che rievocano le memorie.
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Quale ruolo assegni alla fotografia?
È un inizio. La considero come una base da cui partire. L’avvio per qualcosa che verrà dopo. Una volta chiusaun’immagine e offerta allo sguardo altrui si attivano numerosi processi, altri rispetto a quelli necessari per farla. Per questo sono convinta che più scenari immaginativi offre una fotografia e più essa ha un suo ruolo nelle nostre interrogazioni sul mondo.
In alcuni casi, però, si tratta di riconoscerne dettagli e frammenti. Oppure di immaginare altro ancora.
In una semplice fotografia c’è la pretesa di farci stare il mondo. Ma non è che una delle ambizioni che caratterizzano il nostro rapporto con essa. In fondo, facendo fotografia si lavora anche sulla possibilità di affrontare la complessità. E non è solo una questione legata ai risultati che si possono ottenere sul piano visivo, perché la chiave sono semmai i processi che li rendono possibili.
Una volta che chiudi una immagine si avvia anche una interrogazione sul fare fotografia, che tu svolgi dal suo interno. A emergere sarebbe pertanto la tua esigenza di discutere la pratica facendola.
Sono interessata a due possibilità. La prima è riuscire a svolgere la pratica fotografica ammettendo la sua naturale instabilità, ossia il fatto che è anche un’operazione contradditoria. Un po’ come accade con le teorie, sono naturalmente falsificabili: ecco, penso che vada così anche nella fotografia. La seconda possibilità è quella di discuterla, come dici tu, mantenendo però in primo piano il suo legame con il tempo.
Nonostante tu sia interessata ai processi e alle dinamiche operative alla sua base, pensi che la fotografia sia essenzialmente immagine.
La fotografia è troppo poco. Poniamo di dire che in fondo sia ‘immagine’, usando quel termine ci sforziamo di raccogliere solo una minima parte di qualcosa che è molto più grande. La fotografia ha paradigmi tecnici e pratici, mentre l’immagine è un orizzonte. Quest’ultimo trova una sua riduzione, un suo perimetro, proprio attraverso la fotografia. Ma è anche una questione di possibilità.
Che cosa vuoi dire?
Un’immagine è possibile se offre degli elementi di riconoscibilità, di orientamento. L’inquadratura è uno strumento che favorisce questi elementi. La fotografia dovrebbe allora permetterti di riconoscere un labirinto e anche di non perderti al suo interno.
Perché questo sia possibile, spesso con il tuo lavoro valorizzi la centralità della posa. Sto pensando alle tue scelte di porre al centro delle fotografie i soggetti che ritrai, di concentrarti su quello che dovrà avere più importanza nell’inquadratura, di sottolineare le simmetrie e i rapporti tra figura e sfondo.
La fotografia permette di rispondere a varie domande che cambiano nel corso del tempo: è un invito a lavorare trovando ciò che è più opportuno per farla, ciò che più si addice al progetto nel quale sono coinvolta. La posa non è data a prescindere, dipende piuttosto da ciò che sto affrontando in un certo momento. Quando mi metto davanti a un soggetto lavoro con la posa, ma si tratta pur sempre di considerare anche fin dove posso arrivare per mezzo della finzione. Da una parte quest’ultima – essendo un ingrediente importante per la pratica fotografica – influenza la posa, dall’altra le sue modifiche dipendono di volta in volta da ciò che faccio.
In questa tua riflessione si riconosce anche il ruolo della concretezza, che nel tuo lavoro sembra essere prioritaria rispetto all’immagine.
Se ammettiamo che le immagini non siano prioritarie stiamo anche dicendo che nonostante la loro naturale insufficienza suscitano quesiti o dubbi e consentono comunque di narrare qualcosa, di vedere aspetti che altrimenti non considereremmo. Nella fotografia vive l’esigenza di stare con i piedi per terra. Va così proprio perché la concretezza è inevitabile.
Prima dicevi che far stare il mondo in una semplice fotografia non è che una delle ambizioni che la caratterizzano. Ne hai in mente altre?
Sì. Penso spesso a quella idea di voler tornare indietro convinti di poter in qualche modo rifare il mondo, riuscendo così a catturare insieme al visibile anche l’invisibile.
Quindi, pensi che la macchina fotografica sia una sorta di macchina del tempo?
Sì, è una idea che mi attira molto. Ma è importante tenere in considerazione alcuni aspetti che nutrono quell’ambizione di manipolare il tempo. La fotografia lavora su paradigmi terribili: spesso si pensa che sia solo uno sguardo sul passato o su quello che c’è stato. Non mi soddisfano affatto questi modi di pensarla. Mi interessano invece le possibilità che ci sono di lavorare su ciò che ci sarà. La fotografia è la prima parte di quel processo che si sviluppa poi in altre direzioni, che saranno forse anche inaspettate. Possono sembrare poca cosa, mentre sono l’inizio di una trasformazione.
Davide Dal Sasso
SCOPRI QUI la fotografa Claudia Corrent
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Davide Dal Sasso
Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…